Nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo il soggetto vive con angoscia l’intrusione coatta di un’idea, di una rappresentazione, di un impulso (l’ossessione, dal latino obsidere = assediare), che non riesce ad allontanare, ed è costretto a mettere in atto comportamenti ripetitivi e stereotipati (la compulsione), non raramente ritualizzati, per alleviare l’ansia che deriva dalle ossessioni.
Al suo problema insolubile, l’ossessivo finisce per trovare una soluzione di compromesso, che costituisce in fondo il senso della sua nevrosi: stabilisce una forma particolare di relazione magica con il mondo. Lo psichismo di difesa struttura una serie di rituali più o meno mirati a superare l’ossessività e l’ansia che la lotta stessa provoca. Tuttavia, i rituali non cancellano le ossessioni e devono quindi mutare, potenziarsi, perfezionarsi, finendo per diventare essi stessi ossessivi.
“La ripetizione entra come principio organizzativo nel cerimoniale, nel rimuginare, e, fino a un certo punto, nella intera routine della sua vita quotidiana. La sua origine non lascia adito a dubbi. La ripetizione è principalmente la tecnica impiegata nel processo di apprendimento. Qualsiasi cosa il bambino debba o voglia apprendere deve essere ripetuta ed esercitata” (Rado, 1959-1966). I primi rapporti di mediazione con la realtà e con le proprie fantasie passano quindi attraverso la ripetizione, che, soprattutto nella fase anale, permette non solo di stabilire una costanza dell’oggetto, ma anche di modulare le emozioni e la loro relazione con le situazioni. Tale mediazione avviene normalmente anche nella vita adulta: per esempio, è indicativo il fatto che quando si legge un brano che coinvolge particolarmente da un punto di vista emotivo, si sia portati a rileggerlo, pur avendone già afferrato completamente il senso.
Nell’ossessivo, l’uso “insensato della ripetizione è una caricatura della tecnica di apprendimento. A parte questo, egli è costretto alla ripetizione dalle proprie interdizioni della coscienza. Arrestato da esse appena comincia, deve continuamente riprendere dall’inizio. Non va mai al di là del primo passo verso lo scopo inconscio del suo sforzo compulsivo” (Rado, 1959-1966).
Nel soggetto, la ripetitività è dunque portata alle estreme conseguenze, nel senso che non si esprime in forme più o meno attenuate, ma conserva una modellistica infantile, caratteristica appunto della fase anale, perché deve assolvere a precise necessità: in particolare, esercitare un controllo ferreo sulle situazioni, limitando il più possibile il margine di incertezza, che per l’ossessivo è foriera di pericolo. Naturalmente, si tratta di un pericolo di natura emotiva: il controllo sui fatti e sugli avvenimenti per poter controllare la propria affettività.
Si tratta anche di un tentativo costante di controllare la possibile risposta affettiva dell’oggetto, dove questo sia visto come un pericolo: è qui comunque che si pone la differenza sostanziale con l’atteggiamento fobico, nel senso che per il fobico l’oggetto è sempre pericoloso, mentre per l’ossessivo diventa pericoloso nel momento in cui viene persa una distanza ottimale da questo, che diventa o troppo vicino (quindi potenzialmente aggressivo e inglobante) o troppo lontano (e perciò foriero di angosce di perdita). E il rituale rappresenta la modalità con cui mantenere a una distanza ottimale il rapporto d’oggetto: egli tende ad allinerasi nel rituale per sfuggire a ciò che gli resta di libertà nel conflitto pulsionale.