La domanda che motiva questo contributo è se non si stia verificando proprio nell’ambito della depressione uno dei consueti processi di delega alla psichiatria e alla medicina, volto a trasformare conseguenze di eventi problematici sociali e politici in fattori clinici, complice talora la stessa psichiatria. Quindi, sino a un certo livello di sofferenza, la depressione va considerata come condizione naturale e necessaria; oltre un certo livello di sofferenza e di coartazione delle capacità affettive, lavorative e relazionali questa rientra in specifiche sindromi considerate, se durevoli nel tempo, patologie . La più antica “sindrome” psichiatrica che ha resistito da oltre duemila anni è la malinconia. La sua definizione, tuttavia, così come la descrizione psicopatologica, le attribuzioni etiologiche e la sua stessa collocazione antropologica variano nei secoli secondo la cultura e l’etica dominante. Anche la sua incidenza varia secondo quanto sia compreso o escluso dalla definizione sindromica e dalla stessa questione se trattasi di malattia o aspetto legato alle umane vicende. È sempre più evidente che la genericità e mobilità tra criteri d’inclusione nelle sindromi psichiatriche, specie per la depressione, siano determinate da molteplici fattori non escluse la connivenza di molti psichiatri restii a dedicare del tempo ai pazienti, le tempistiche introdotte dalle assicurazioni e dalle aziendalizzazioni della sanità, le resistenze dei pazienti alla faticosità dei processi d’insight… ma che si traduce soprattutto in fattori comunque favorevoli al mondo delle “Big Pharma”. Molti colleghi non si rendono conto che una delle catastrofi incombenti è la sempre minor credibilità delle discipline “psy”, l’eccessiva autoreferenzialità e soprattutto il conformismo di molti, scevri di revisione critica e talora legati a interessi a dire poco gregari.
Gli psichiatri debbono reimparare a parlare con i pazienti e con la loro sofferenza, capirne le cause e far leva sulla disposizione individuale a superarla. Questo deve essere il senso della psicoterapia medica: distinguere le vere, gravi, invalidanti depressioni dalle reazioni fisiologiche a un mondo difficile. Trasformare il “mal di vivere” in malattia non lo migliora, consente delle strumentalizzazioni quando non delle facili promesse. – S. Fassino
La depressione e le cure primarie (1a parte)
“La pandemia covid 19 ha, tra molteplici dibattiti, riproposto il ruolo delle cure primarie e del medico di medicina generale (MMG) nell’attuale organizzazione sanitaria. Le numerose dichiarazioni dell’organizzazione mondiale della sanità, dalle prima conferenza di Alma Ata, di Ottawa del 1986 sino a quelle più recenti, Astana e Shanghai, hanno ribadito dopo trentacinque anni (il che è di per sé significativo di scarsa aderenza) il ruolo centrale delle cure primarie senza, tuttavia, che molti governi, il nostro compreso, abbiano realmente potenziato, riformato e opportunamente finanziato la salute territoriale. È sufficiente segnalare come i decreti Balduzzi, con la creazione della AFT (Aggregazioni funzionali territoriali) del 2014 siano rimaste, salvo poche eccezioni -Toscana ad esempio- pressoché inapplicate. L’emergenza pandemica ha inoltre visto calare le richieste di consulenza o trattamento specialistico sino alla metà degli anni precedenti, non solo in Italia ma in numerosi centri di psichiatrici esteri: Stati Uniti-New Haven , in cinque centri di Parigi e banlieue , in Germania- Manheim-Heilderberg in Spagna-Madrid . Eppure il consumo di psicofarmaci e di ricoveri in casa di cura, malgrado le restrizioni logistiche in tutti gli ospedali, è aumentato suggerendo l’ipotesi che le prescrizioni avvenissero in sede non specialistica e senza un supporto psicologico adeguato. Anticipando le conclusioni è dal dopo seconda guerra mondiale che si ribadisce la necessità di un coinvolgimento primario della medicina di base nella salute mentale ma che altresì non si tiene conto che il tempo che ha un paziente dal proprio medico di esprimere i propri disturbi prima di essere interrotto è di quaranta secondi. Non pare comunque inutile riprendere questa antica necessità in questo momento dimostrativo della necessità di stabilire dei nuovi parametri rispetto ai bisogni di salute sollecitati, appunto dalla pandemia. Si aggiunga che,dal solo punto di vista economico il trattamento sul territorio determina un risparmio di spesa sanitaria complessiva del 65%.
Uno dei maggiori problemi di salute mentale oggi è l’incremento del ricorso a psicofarmaci antidepressivi utilizzato anche per cadute del tono dell’umore reattive a eventi vitali e non certo a malattia; insomma la patologizzazione di reazioni a vicissitudini esistenziali purtroppo abituali o di trasformazione di inevitabili somatizzazioni in malattie.
Prima di affrontare il problema della Depressione rispetto alle Cure Primarie è opportuno rammentare il sollecito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2009:
Dieci principi per integrare la salute mentale nelle cure primarie:
- Leggi sanitarie, regolamenti e organizzazione debbono incorporare la salute mentale nelle cure primarie.
- Sono necessarie campagne informative per cambiare atteggiamenti e comportamenti (di esclusione, di rifiuto e persino d’immediata delega di problemi e disagi espressi dal paziente) <le parentesi sono mie>
- È necessaria un’adeguata formazione dei professionisti delle cure primarie.
- I compiti delle cure primarie debbono essere limitati e realizzabili.
- I professionisti della salute mentale debbono essere disponibili ad appoggiare le cure primarie.
- I pazienti debbono aver accesso ai farmaci psicotropi nel corso delle cure primarie.
- L’integrazione è un processo non un (singolo) evento
- È essenziale la presenza di un coordinatore dei servizi di salute mentale.
- È necessaria una collaborazione con: altre agenzie statali non rivolte alla salute mentale, ONG, professionisti che si occupano del buon livello di vita (e di eguaglianza) e con il volontariato
- Sono indispensabili risorse adeguate.
Tale sollecito è particolarmente opportuno considerando che oltre il 40% dei nostri laureati in medicina
opta professionalmente per la Medicina Generale di Famiglia (MMG), vale a dire diventerà il primo interlocutore di qualsiasi nostro malessere. È opportuno rilevare che l’OMS, pur parlando di necessario incremento di risorse non prende in considerazione i carichi di lavoro, l’organizzazione del lavoro stesso e la collocazione giuridica e di afiliazione delle varie realtà locali.
Leggi e raccomandazioni, quindi ci sono, ma la depressione è dichiarata in aumento.
È quindi indispensabile premettere che la depressione nel mondo occidentale è una condizione emotiva, anzitutto fisiologica, connaturale all’essere umano. Tendenzialmente è collegabile a una perdita, sia essa di persona cara, di un rapporto affettivo, di oggetti investiti affettivamente sino a cadute di valori e credenze, sui quali abbiamo investito affettivamente. Nello sviluppo infantile il senso di perdita, di abbandono e di paura di essere abbandonati, la perdita o la scomparsa di un oggetto d’investimento sono indispensabili per la costruzione di un sistema affettivo basato appunto sulla presa di coscienza del valoro di quanto affettivamente noi investiamo. Si può dire che senza lutto e il suo superamento non c’è valutazione di noi e del valore dei nostri sentimenti, cioè resteremo bambini e quindi ancor più esposti al senso di perdita.
L’evidenza psicofisica di tale perdita si caratterizza con:
umore e sentimenti negativi, timori per lo più immotivati, senso di carenza, caduta dei pregressi interessi, svogliatezza, sensazione di fatica ingiustificata. Può accompagnarsi ad ansia, sensi di colpa, instabilità emotiva, difficoltà di rapporti interpersonali, autosvalutazione, vissuti d’incapacità, incertezza decisionale, sonno breve e comunque non percepito come riposante, ritorno al passato, spesso denigrato, disturbi della sessualità. Un superiore livello di gravità è rappresentato da sensazione d’ineluttabile catastrofe, incapacità di immaginarsi nel futuro senza l’assillo di errori passati, auto attribuzione di colpe di eventi esterni, riferimento a se stesso di responsabilità altrui, senso d’inutilità personale e, come ulteriore peggioramento, vissuto d’inutilità sino al rifiuto dell’altrui aiuto.
Spesso, se non sempre, sussiste un’aggressività/rifiuto verso l’altro-gli altri, per lo più mascherato e giustificato dalla sofferenza. In minor o maggior misura si accompagna a sensazioni corporee: dal malessere – disagio diffuso a specifiche somatizzazioni. Se coscientemente legata a una perdita questa monopolizza il pensiero; se non giustificata da eventi luttuosi può legarsi a un senso d’insufficienza esistenziale. È presente in pressoché tutte le forme psichiatriche ma può prevalere episodicamente in maniera quantitativamente diversa nel corso della vita di ciascuno.
Tuttavia, prima di essere considerata malattia è da ritenersi connaturale allo sviluppo, maturazione e all’esistenza stessa dell’essere umano, cioè come risposta fisiologica a eventi a forte risonanza emotiva ancorché, talvolta, minimizzati o peggio non sentiti come tali.
Quindi, vale la pena ribadirlo, sino a un certo livello di sofferenza, la depressione va considerata come condizione naturale e necessaria; oltre un certo livello di sofferenza e di coartazione delle capacità affettive, lavorative e relazionali questa rientra in specifiche sindromi considerate, se durevoli nel tempo, patologie (cfr. oltre).
NB. il livello di sofferenza e la percezione soggettiva di tale sofferenza sono anche determinati da fattori personali, ambientali, culturali e sociali. Qui ho voluto aggiungere “fattori trascurati”, che pur inclusi tra gli altri, riassumono situazioni critiche contingenti:
fattori personali: legati alla propria storia, alla resilienza soggettiva (capacità individuale di superare i conflitti), al supporto familiare e della propria rete sociale e all’educazione effettivamente ricevuta;
fattori ambientali: gli aspetti geografici, i cambiamenti climatici, inquinamento e, in generale, la qualità ambientale influenzano le condizioni emotive di base. Pur tenendo conto di una varietà di fattori intervenienti è da molti presa in considerazione una relazione tra latitudine, clima, esposizione solare ed emotività
fattori culturali: concezione personale morale, religiosa, etica e contingente della sofferenza; (ad esempio il tedium vitae degli antichi romani nell’età imperiale, l’accidia medioevale, la malinconia dell’ultimo millennio nelle sue diverse forma, la recente neurasthenia del XIX e XX secolo soprattutto negli USA; presenza e condivisione di difficoltà comuni e/o contingenti (spesso diminuisce il livello di depressione al punto che alcuni ricercatori correlano depressione alle condizioni di benessere. (cfr parte IIa)
fattori sociali: livello di aspettativa prestazionale e comportamentale del gruppo ristretto e allargato rispetto alle capacità e vissuto soggettivo della persona; soglia della sofferenza socialmente indotta (spesso difficilmente distinguibili dai precedenti fattori). Ad esempio negli ultimi cento anni si assiste a un’evoluzione verso un ideale sociale prestazionale rispetto a quello precedente di tipo conflittuale; ieri: “sii quello che puoi”; oggi: “sii quello che devi”.
fattori trascurati: che moltiplicano i rischi di: instabilità (con rischio significativo di cronicizzazione in 2/4 anni): tra questi
i mutamenti dell’offerta lavorativa:
- per le età di mezzo: cassa integrazione speciale, licenziamenti, dismissioni anticipate, precariato o mancanza di lavoro per i figli;
- per i giovani: mancanza di lavoro, precariato, lavoro occasionale, occupazione estranea alle aspettative
- per le donne: oltre al punto a) discriminazione, sottovalutazione, lavoro e diseguaglianza in famiglia
l’esclusione sociale, le nuove povertà;
le diseguaglianze negli accessi alla salute e all’assistenza;
i cambiamenti nelle reti di supporto sociale e degrado della coesione sociale (per alcuni sociologi passaggio da famiglia allargata a famiglia nucleare e a sua volta crisi della famiglia nucleare): alienazione, depersonalizzazione, solitudine, abbandono.
Malgrado quanto esposto nell’attuale sistema sanitario italiano solo il 3-4% dei depressi, indipendentemente dalla gravità sintomatologica, si rivolge a uno psichiatra e, al contrario, molto oltre il 70% dei ricoveri in casa di cura per depressione è prescritto dal MMG. La maggioranza, quindi, dei depressi si rivolge al proprio medico, il che è corretto, ma impegnativo per il medico che sovente si sente coinvolto solo dalla espressione di sofferenza e dalle somatizzazioni o al massimo dal solo disturbo dell’umore, indipendentemente dalla complessità esistenziale e lo tratta alla stregua di un sintomo somatico.
La durata della condizione depressiva, per considerarla malattia, è oggetto di controversia (controversie alle quali è dedicata la IIa parte; comunque, a parere di chi scrive non deve essere limitai ai 15 giorni del sistema diagnostico Nordamericano – cfr. IIa parte).
Da un punto di vista clinico operativo e in base alla presenza, intensità e personale resilienza (senza trascurare la tolleranza, reattività e il supporto dell’ambiente del soggetto) possono venir divise in lievi, medie, gravi. Quest’ultime a loro volta in: episodio depressivo maggior monopolare singolo e talvolta ripetuto, depressione bipolare (a sua volta di tipo I o II secondo l’intensità della fase euforica – anche questa molto soggetta a una controversa discrezionalità del diagnosta -).
Peraltro la generalizzazione della depressione tra i disturbi dell’umore ha impoverito questo complesso e articolato modo d’essere (l’antica melanconia di Aristotile) a semplice disturbo dell’umore.
Invece una valutazione psicodinamica deve tener conto della presenza e intensità dell’evento-perdita e dei fattori socio ambientali. Più la/le perdite, delusioni, lutto ed eventi traumatizzanti sono reali, ripetitivi, intensi (per quel soggetto, a quell’età, con la sua storia…) più andrebbe presa in considerazione la ormai trascurata “depressione reattiva”, legandola quindi a un’attività di counseling volta al superamento-elaborazione individuale del lutto.
La maggioranza delle depressioni lievi potrebbe esaurirsi senza prescrizioni farmacologiche così come molto oltre la metà delle depressioni di media entità specie se sostenute con competente atteggiamento empatico. Per altro non si ha idea di quante non necessiterebbero di una prescrizione, ma solo di un supporto, mentre, se posti in cura farmacologica sulla semplice base della caduta del tono dell’umore, i pazienti potranno convincersi di essere malati e che la causa stia in una sregolazione somatica, convinzione foriera di recidive nonché di una ridotta o nulla attività di auto rinforzo, di rassicurazione o di ricerca di un aiuto interpersonale specialistico.
Purtroppo la “depressione” ormai viene considerata in toto “malattia” ed è soggetta a una diffusione clinica e mediatica (vedi IIa parte) che dovrebbe essere oggetto di seria riflessione.
Infatti:
- è considerata come la malattia prevalente e seconda causa d’invalidità in un immediato futuro;
- in assoluto la più onerosa sul piano lavorativo (1/10 dei lavoratori assenti per depressione e a salire);
- determinante il maggior incremento d’uso di psicofarmaci (senza coglierne il giro vizioso NdA);
- oggi dal 5% all’13% della popolazione dei paesi occidentali ne fanno uso (negli USA il 26%)
- per l’Italia la depressione colpirebbe dal 1,8 (depressione maggiore) al 4,6% (depressione in generale) della popolazione. I dati sponsorizzati (cfr. IIa parte) raddoppiano questi valori;
- solo un terzo dei “veri malati” (da intendersi depressi gravi) ricorre a terapie riconosciute;
Dubbi a livello di cure primarie venivano già posti da Giuseppe Ventriglia (2004) quando suggeriva al MMG di :
- Verifica sul campo degli aspetti applicativi e della relazione tra le nozioni studiate e la pratica medica giornaliera. ( NB: l’Autore intende “sul campo” in ambulatorio e a domicilio).
- Rapportare i propri processi diagnostici all’epidemiologia reale delle patologie nell’area in cui si vive
- Vivere il significato vero dell’assistenza primaria della persona e della comunità.
- Verificare la differenza tra “malattie” e “problemi”, non solo quindi “patologia” ma malesseri, disagi, bisogni non meglio definiti. (cfr. IIa parte)
- Apprendere la metodologia dell’approccio ai problemi dei pazienti e definizione della loro priorità nel singolo soggetto
- Approfondire il “processo” decisionale come “problem solving” inclusa la decodificazione dei bisogni del paziente.
- Impostare in modo efficace e differenziato le strategie di intervento in area preventiva, diagnostica, terapeutica, riabilitativa e di controllo nel tempo dei pazienti.
- Riconoscere l’influenza della famiglia sulla compliance rispetto alle prescrizioni.
- Verificare nella pratica l’importanza diagnostica e terapeutica del colloquio tra medico e paziente.
- Vivere il significato del rapporto di fiducia e dell’assistenza continuativa al paziente e alle famiglie.
- Comprendere a fondo il senso del rispetto dell’approccio olistico alla persona sana o malata.
- Apprendere gli obiettivi, i limiti, le peculiarità, le difficoltà, l’importanza dell’approccio alle persone sane.
- Applicare i vari modelli di erogazione dell’assistenza: medicina d’attesa, di opportunità e d’iniziativa.
- Impostazione e conduzione del colloquio differente secondo la tipologia di ogni paziente.
- Badare alla comunicazione verbale e non verbale.
Indispensabile quindi chiedersi: cosa vuol dire per lui, per la famiglia, per il lavoro e per le relazioni
1) la sua condizione
2) la diagnosi
3) l’essere in cura
4) il chiedere aiuto
5) l’eventuale reticenza a chiedere aiuto
Proseguendo, quindi sulla depressione, l’imponente e non giustificabile aumento delle diagnosi di depressione, (NB di diagnosi di depressione, non necessariamente della malattia depressiva – vedi IIa parte) impone delle domande a tutti noi professionisti della salute (anche mentale) in base al fatto che l’individualità del paziente è un dato irriducibile; quindi:
- perché questo paziente si ammala ora e qui?
- perché questo paziente è più vulnerabile (o per quanto ci riguarda: perché è meno vulnerabile a altre forme psichiche e somatiche?
- A cosa gli “serve” la depressione (quale meccanismo di difesa rappresenta (dalla conversione somatica al tipo di rapporto) verso se stesso e verso gli altri?
Pare importante fare un parallelo tra gli aspetti psicodinamici e quelli internistici posti da Gilberto Corbellini circa i cambiamenti ambientali creati dai progressi economici, sociali e sanitari che hanno trasformato meccanismi adattativi di difesa in cause di malattie. È quasi certamente il caso delle allergie, delle malattie autoimmuni per Corbellini e quindi diventa per noi spontaneo includervi anche la depressione: da meccanismo di consapevolezza e autodifesa diventa malattia (cfr. IIa parte). Le nostre difese immunitarie, dice Corbellini da internista, erano settate per essere adattive in un ambiente dove circolava una più alta variabilità di agenti patogeni. I nostri antenati erano frequentemente “abitati” da vermi, condizione normale per molti animali anche oggi e altrettanto consueta in popolazioni che, sempre oggi, vivono in aree del mondo igienicamente meno progredite. La fisiologia delle reazioni allergiche era, tra altre funzioni, quella che svolgeva funzioni di difesa all’interno delle dinamiche infiammatorie. Corbellini, citando il detto del genetista di popolazioni Theodosius Dobzhansky, che “nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione”, sostiene che valga non solo per la biologia “normale”, ma anche per quella giudicata “patologica”.
Il punto di vista evoluzionistico implica che il medico debba farsi almeno due nuove domande, oltre a quelle che hanno alimentato la ricerca biomedica e la pratica clinica negli ultimi 150 anni. Cioè che non debba chiedersi solo “Come ci si ammala?”, ma anche: “Perché ci si ammala?”. Vale a dire: “Quali sono le origini delle vulnerabilità biologiche strutturali e funzionali che predispongono ad ammalarsi?”. “Perché questa persona si è ammalata, proprio in questo momento e in questo modo?”
Le cause delle malattie non sono, insomma, dannose in quanto tali, ma perché la fisiologia dell’organismo può risultare incongruente rispetto al contesto in cui viene a trovarsi: dissonanza o mismatch che si manifesta attraverso le interazioni tra costituzioni genetiche/epigenetiche uniche e fattori ambientali contingenti.
I cambiamenti ambientali creati dai progressi economici, sociali e sanitari hanno trasformato meccanismi adattativi di difesa in cause di malattie. Vedasi le già citate allergie e malattie autoimmuni. Al pari le radicali mutazioni in questi anni hanno probabilmente trasformato i nostri meccanismi di difesa psicologici, che si ricorda sono da considerarsi primariamente fisiologici, in psico-dinamiche non armonizzabili tra loro per i dirompenti cambiamenti sociali e ambientali che impongono adattamenti non previsti e spesso non possibili per un gran numero di persone.
Le considerazioni di Corbellini (da lui elaborate facendo riferimento soprattutto a malattie somatiche) valgono anche per quanto riguarda la depressione, non solo per l’età evolutiva e quella adulta ma molto per l’età involutiva; l’anziano, oggi è tra i grandi e sempre in crescita consumatore di psicofarmaci. Per questi dice Corbellini: “siamo una specie che per il 99% della sua esistenza si è allineata su una aspettativa di media di tre decenni, e che quindi non può avere acquisito una naturale predisposizione a vivere tre volte tanto. La vecchiaia è una condizione diventata frequente solo molto recentemente, e la maggioranza di chi oggi invecchia non lo fa in piena salute per ragioni evolutivamente ben spiegabili. Cioè non siamo psicologicamente assuefatti al trascorrere della vita con adattamenti sociali del tutto innaturali.
In altre parole anche la relazione medico-paziente va inquadrata, compresa e ripensata, o forse ricostruita, alla luce di una riflessione evoluzionistica.
Errore quindi, nel campo della salute mentale considerare una difficoltà evolutiva come malattia, ma doveroso agire sulla resilienza individuale tenendo conto che questa non può essersi sviluppata in maniera antropologicamente naturale.
Adottando questi concetti evoluzionistico-ambientali, anche le depressioni lievi e moderate,(e perché non anche alcune gravi?) se viste in questi termini, sono determinate da condizioni lontane dalla nostra attuale concezione di malattia perché determinate da un disadattamento del proprio vissuto prestazionale (cosa altro non è l’ansia se un calo della fiducia prestazionale?), da difetti dell’ autostima, dalla stigmatizzazione ambientale o personale, da somatizzazioni considerate equivalenti a quelle da malattie ( NB. il corpo reagisce sempre e comunque ai sentimenti) talvolta indotte o accentuate da come è attualmente concepito il rapporto medico-paziente.
È noto che il paziente non tende a riferire spontaneamente i propri disturbi psichici (anche se per la depressione-caduta del tono dell’umore-astenia appare una minor reticenza di giorno in giorno); potrebbe farlo se il medico indagasse sulla loro eventuale presenza in modo più preciso e diretto. Il paziente all’inizio del colloquio (consapevole dei limiti temporali, logistiche e anche ambientali della visita) forse tende o tenderebbe a riferire anche i disturbi psichici e non a limitarsi a quelli somatici; se, tuttavia, il medico presta attenzione solo ai secondi e trascura i primi, diminuisce fortemente la possibilità che il paziente ritorni su di essi durante il corso della visita o nelle visite successive.
Queste considerazioni dovrebbero riproporre fortemente il concetto di “negoziazione” con il paziente, non solo della terapia ma della stessa diagnosi, intendendo con questo un approfondimento dei perché della propria condizione, i perché che certamente il paziente in maniera più o meno strutturata si è già certamente posto. Su questa base interviene poi la negoziazione della terapia (compresa il far tornare il paziente senza dover immediatamente “soddisfarlo” con una prescrizione).
L’elasticità definitoria della salute mentale la rendono particolarmente variabile in base alle vicissitudini politiche, sociali ed economiche. È, quindi, indispensabile una ridefinizione dinamica, multidimensionale e, soprattutto, pragmatica di salute e disagio mentale a partire proprio dal riduttivismo medico che oggi coinvolge la depressione. Questo non potrà avvenire tramite la psichiatria, almeno da sola, ma solo in stretta collaborazione con la Medicina Generale, grazie proprio a quanto le accomuna: la prevalente prassi territoriale.”
Pier Maria Furlan
FINE PRIMA PARTE
- in Italia il tempo medio che ha un paziente per riuscire a parlare con un medico prima che venga interrotto è di 40 secondi (Zangrandi, Univ. Bicocca 2018)