Perché Psicoterapia Medica? Perché un sito SIPM?
Il sito vuole ospitare numerosi dibattiti, in partenza quello sul “Perché psicoterapia medica”? È possibile presupporre che questa “tecnica” tragga la sua legittimazione dal solo fare riferimento a una disciplina-categoria professionale il cui interesse è rivolto alla “disfunzione” e che quindi trovi validazione dal suo far riferimento ai presupposti di una categoria professionale o a una ipotetica disposizione individual-vocazionale verso il disturbo psichico? Si può assumere che coloro che sono emotivamente predisposti a dedicarsi alla medicina posseggano delle caratteristiche psicologiche (più) aperte a comprendere la malattia, la disfunzione, il disagio, da un lato, e un atteggiamento verso la sofferenza diverso da altri attori delle professioni di servizio? Spingendo il quesito sino agli estremi: sono ipotizzabili delle differenze tra la psicologia medica e psicologie non mediche (non uso apposta la parola clinica, del tutto etimologicamente inappropriata per il riferimento a Kliné letto)? Il dibattito non è nuovo e risale almeno al processo contro Theodor Reik negli Stati Uniti per esercizio abusivo della professione medica nel 1925, che determinò il saggio di Sigmund Freud “Il problema dell’analisi condotta da non medici” del 1926, che, forse, fu utile a scagionare il laureato in filosofia Reik ma tuttavia servì a poco perché negli USA sino a metà degli anni ottanta del Novecento le società psicoanalitiche non associavano i non medici. L’esclusione fu tolta in sede di accordo extragiudiziale dopo la denuncia di società di psicologi contro l’American psychoanalytic association. Peraltro, Anna Freud, Erik H. Erikson, Ernst Kris, Harry Guntrip, David Rapaport erano non medici come, non psicoanalista, Jean Piaget. I primi psicoterapeuti dell’era moderna non erano medici come il Marchese di Puysegur, mentre Franz Anton Mesmer, medico, fu espulso dall’Austria per sospetta ciarlataneria. Pierre Janet, forse vero padre della psicodinamica lo fu quando era filosofo; solo in seguito volle prendere la laurea in medicina per colloquiare con i pazienti (per ore!). Il Barone Pisani, non medico, nel 1824 costruì un nosocomio esemplare per l’Europa e per gli Stati Uniti. In Italia, sino alla legge 56 del 15 febbraio 1989 (voluta dal medico senatore Adriano Ossicini fondatore con Giovanni Bollea del primo Centro medico psicopedagogico d’Italia nel 1947) la questione psicologia-psicoterapia era relegata in una terra di nessuno e talvolta decurtata da interventi della magistratura o dello stesso Ordine dei Medici. Dalla separazione della psicologia dalla medicina voluta dal ministro filosofo Giovanni Gentile (con l’accordo di Benedetto Croce) durante i primi anni del fascismo e il progressivo smantellamento della psicologia sperimentale per l’ostilità del regime verso una “non scienza” ( poi bollata come ebraica), dobbiamo attendere, proprio cinquant’anni or sono nel 1971 il 21 luglio a Roma e il 5 novembre a Padova l’apertura delle prime due Facoltà di Psicologia, seppur all’interno della facoltà di Magistero, poi diventata di Scienze pedagogiche. Sarà la legge 56/89 a conferire alla psicologia lo statuto di professione sanitari (anche se all’art. 3 sono vietati gli interventi medici…limite ben difficile da stabilire al di là di quello chirurgico e, forse e per ora, farmacologico), l’istituzione di un albo degli psicologi e di due liste di esercenti la professione di psicoterapeuti all’interno degli albi dei medici e degli psicologi, a patto di aver fatto una scuola di specialità universitaria o accreditata dal Ministero di almeno quattro anni dopo una delle due lauree, confonde maggiormente ogni tentativo di categorizzazione. .
Quindi un quesito che lasciamo al Forum resta: psicoterapia medica mantiene una sua caratterizzazione che la differenzia dalle altre forme di psicoterapia?
Questo vuole aprire e non concludere un dibattito. Infatti le scuole italiane di specializzazione in psicoterapia accreditate dal ministero dell’istruzione a rilasciare un diploma equipollente a quello universitario di specializzazione sono 351, da 2 in Basilicata a 80 nel Lazio, (al novembre 2021) con riferimenti teorici molteplici e spesso genericamente “olistici”, vale a dire senza tentativi d’integrazione epistemologica. Inoltre annoverano decine di migliaia di allievi. Il numero di associazioni scientifiche occidentali propugnanti delle tecniche psicoterapeutiche supera i 350 (seppur elencate in siti web dalla non comprovata autorevolezza) numero al quale dovremmo aggiungere centinai di altre scuole con scopi affini (vedi in Francia la professione di “psychopracticien” che non appartiene alle scuole e categorie elencate, nonché le ancor più numerose correnti italiane ed estere che si rifanno ad altrettanto scuole antropologiche, filosofiche, religiose e trascendenti. Notevoli differenze vi sono anche sugli anni di corso, (ad es. in UK da uno a tre anni e con titoli curriculari e di diploma eterogenei), training pratico (gap tra quello dichiarato e quello espletato) e una inevitabile forte differenza di livelli di preparazione. Si aggiunga che molte (la maggioranza) delle nostre scuole di specialità mediche universitarie in psichiatria dedicano spazi didattici limitati alle psicoterapie, ancor meno alla loro pratica-tirocinio, peraltro obbligatorio. Per molti postulanti l’accesso alle sedi è casuale in quanto affidato a un concorso nazionale, venendo così a cadere scelte maturate nel corso degli studi medici. Il recente allargamento dei posti di specialità ha probabilmente abbassato i livelli motivazionali di molti, prima esclusi dagli accessi specialistici (prendere cosa c’è). L’accesso alle scuole accreditate è libero, concedendo così maggior libertà di scelta all’allievo, scelta non necessariamente di qualità.
Insomma, il panorama psicoterapeutico Italiano è vario, spesso confuso e talvolta desolante.
Storicamente la SIPM si è identificata a un indirizzo psicodinamico; tra i suoi fondatori, gli Psicoanalisti Luigi Frighi, Romolo Rossi, Franco Giberti, Adolfo Pazzagli, Dario De Martis, Fausto Petrella, GianGiacomo Rovera…La psicoterapia psicodinamica, tecnica terapeutica relativamente chiara ai tempi di Sigmund Freud, relativamente se pensiamo alla polemica di Janet che letteralmente accusò Freud di plagio, affrontava le divergenze facendo comunque riferimento a teorizzazioni ben definite. Così le scissioni all’interno del movimento, almeno le prime e più note, Jung, Adler, Reik, Ferenczi, erano su contenuti teorici e su tecniche d’intervento, mentre la maggior parte di quelle successive accadevano o erano evitate secondo logiche politiche e di equilibri di potere (vedi per le prime l’espulsione di Fromm dall’IPA e per le seconde l’accettazione della scuola di Melanie Klein). Tuttora, tuttavia, viene mantenuta una distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia dinamica, con confini del tutto labili, scavalcati dall’appartenenza o meno a organizzazioni che si contendono il copyright dei padri fondatori. Oggi la psicodinamica, non solo appare frammentata ma oggetto di assemblaggi teorici metodologicamente inverosimili e di prassi terapeutiche giustificate da riferimenti incompatibili. Inoltre, puntualmente in riviste e siti anche prestigiosi compaiono articoli che criticano “dal di dentro” tutti i pilastri della psicodinamica. Soddisfatto il proprio desiderio gnoseologico e il piacere dialettico, talvolta un po’ iconoclastico, non è infrequente chiedersi “ma allora cosa mi resta?”
Non è un appello nostalgico a una, peraltro labile, ortodossia ma un rilevare che qualsivoglia aspetto teorico e tecnico rischia di essere giustificabile e acriticamente accettato.
Questo affollamento di contraddizioni vuole rappresentare una prima risposta ai “perché un sito” e “perché medica” e alla nostra proposta di avvalersi centralmente di un “forum” che si confronti con le contraddizioni, qui solo selezionate tra le tante e riassunte e che proponga quesiti sopiti in maniera routinaria o apodittica.
Per potersi definire psicodinamica gli assunti di base debbono consistere nella certezza, non solo dell’esistenza dell’inconscio ma dell’influenza inconscia sui nostri sentimenti, decisioni e immagini di forze al di fuori della nostra consapevolezza, l’esistenza di un’affettività inconscia attiva e ambivalente e che non si sottomette al principio di non contraddizione, quindi alla presenza e spesso prevalenza di conflitti condizionanti inconsapevolmente e con forza, il nostro funzionamento cosciente. Quanto, tuttavia, la revisione del punto di vista topico, a partire dallo stesso Freud con l’Io e l’Es seguito dalle ricerche degli psicologi dell’Io e dai progressi dei neurofisiologi hanno realmente influito le tecniche psicoterapeutiche psicodinamiche? Gli studi sulle reti neurali e quindi sui processi associativi come intervengono sulla ricostruzione della rimozione? Quanti oggi ricorrono in terapia alle libere associazioni? Come viene considerato il trauma? Quanto il cognitivismo influenza la tecnica e se ci siano confini chiari al terapeuta tra interpretazione e suggerimento comportamentale (ad es. nell’affrontare le fobie ora con la realtà virtuale -VR)?
E a seguire; a quale punto è un confronto tra la visione psicodinamica e quelle di altre teorizzazioni, posto che non sono comunque chiari i meccanismi psicologici-psicodinamici che diventano terapeutici e i perché numerose ricerche dimostrino equivalente efficacia tra tecniche e teorie psicologiche diverse?
Non si vuole qui limitarsi a una pratica individuale e psicoterapeutica psicodinamica ma comprendere che molte incertezze hanno origini profonde.
Non abbiamo definizioni soddisfacenti di Salute Mentale e nemmeno di benessere (o felicità dei popoli), come postulato nell’atto costitutivo dell’OMS/WHO del 1946-1948.
È sempre vaga la definizione di disturbo e malattia mentale. Le nevrosi, cancellate dal DSM III sono ancora utilizzate nell’ICD 10 e dalla maggior parte deli operatori nella pratica quotidiana. Le psicosi e i cosiddetti esordi psicotici comprendono solo un 25% di disturbi schizofrenici, eppure continuano per lo più ad essere trattate come una sindrome schizofrenica malgrado, almeno all’esordio, molti raccomandino un primo trattamento psicoterapeutico.
La depressione, già descritta da Aristotile come melanconia, complessa e necessaria condizione dello sviluppo e del corso dell’esistenza, è stata declassata a disturbo del tono dell’umore depauperandola di tutte le componenti psicodinamiche e sociali, spesso se non sempre, prevalenti.
Lo spleen, la melanconia, l’accidia sono generalizzati nella depressione con una reattiva risposta farmacologica, senza tentare di esplorare se i disagi affettivi, relazionali e autopercepiti nascano dal tipo di vita, dalle modalità di aggregazioni individuali e familiari nonché dal vivere in un’impalcatura sociale basata sul confronto e sulla necessità dell’altrui riconoscimento. Paradossale che le prime focalizzazioni sulle diseguaglianze sociali fossero state formulate dal padre dell’anatomia patologica Rudolf Virchow nel corso di una pandemia di tifo a metà dell’Ottocento.
Malgrado lo sviluppo dei servizi di salute mentale, la loro diffusione territoriale, l’aumento di molecole psicoattive e gli investimenti sulla ricerca in psichiatria e neuroscienze le sofferenze psichiatriche continuino ad aumentare o comunque si assiste a una psichiatrizzazione sempre più estesa del disagio esistenziale.
Purtroppo questa psichiatrizzazione del disagio mentale, peraltro già avvertita tardivamente da Robert Spitzer, coordinatore della task force del DSMIII e poi da Allen Frances, coordinatore della task force del DSMIV, è di chiara importazione statunitense.
La brutale semplificazione dei DSMIlI (la banalizzazione dei disturbi, la loro “delocalizzazione” dal singolo individuo, la declassificazione della depressione, categoria psicopatologica e sociale complessa a generalizzato disturbo dell’umore, comporta un cambiamento di paradigma, peraltro inavvertito dalla maggior parte degli operatori.
L’allargamento dell’attenzione alla “psy” come ha rilevato Alain Ehremberg la costituzione di un immenso ed eterogeneo mercato dell’equilibrio interiore e la salute mentale è diventato concetto che invade trasversalmente tutte le discipline del sapere e ogni concezione sociologica.
Anche i sensi di colpa che derivavano da qualcosa di commesso “contro” oggi sono derivati da qualcosa di “non” commesso, cioè dal qualcosa che non si riesce a essere, a fare, a raggiungere. Questo comporta un indebolimento dei legami sociali e un sovraccarico di responsabilità individuali che si traduce in espressioni di sofferenze, puntualmente definite come malattie. Crescono così le patologie del legame sociale, dalle dipendenze, allo stress post traumatico, ai disturbi del comportamento.
La sofferenza psichica è ormai assunta a misuratore del declino sociale, inteso come somma di rapporti deteriorati (individuali, di lavoro, istituzionali, confessionali, politici…)
In accordo, sempre con Ehremberg, si è verificato un cambiamento dello statuto sociale della sofferenza psichica: la salute mentale ha a che fare con fenomeni generali della vita collettiva, quelli che dipendono al contempo dalla coesione sociale e dal significato di quanto accade, vale a dire dalla coerenza sociale”.
Per Richard Sennet, Edipo ha lasciato il posto a Narciso, quindi non più clinica del divieto ma una clinica dell’ideale. A mio parere questo è particolarmente osservabile nell’ aumento esponenziale delle sindromi Attention-Deficit / Hyperactivity Disorder (ADHD) spesso diagnosi prettamente comportamentali sui bambini e adolescenti esplose negli ultimi anni anche in Italia.
Se è vero che la società, almeno quella occidentale, converge sempre più verso una valorizzazione dell’individualismo (non dell’individuo), in questa generalizzazione si perde di vista che l’individualismo attinge la sua forma, idee e valori dal tipo di società in cui queste si formano e che quindi il concetto d’individualismo non è generalizzabile né omologabile per tutti i tipi di società. In altre parole l’individualismo è diverso in Italia, negli Stati Uniti, nel Nord Europa e nelle nazioni che procedono verso una propria occidentalizzazione.
Infatti se parliamo d’individualismo dobbiamo porci la domanda su quali siano gli Ideali cui mira. E questa dovrebbe essere una delle principali domande delle psicoterapie anche perché, come vogliamo confermare nelle nostre newsletter la psicoterapia “serve”: i pazienti migliorano, anche in casi gravi l’associazione è più efficace della semplice terapia farmacologica, alle carenze dei servizi risponde il privato.
Dobbiamo essere consapevoli che la ricerca di adeguamento al modello medico comporta una “omogeneizzazione” delle diversità e dell’oggetto delle cure, una universalizzazione delle sindromi e di conseguenza delle cure, tipico del modello farmaceutico (non farmacologico che, a ragione, è ben più complesso), sebbene punte avanzate della medicina odierna stiano ponendo sempre più attenzione alla ricerca delle diversità individuali per diagnosi e cure mirate.
Negli USA l’uguaglianza è strettamente legata alla realizzazione individuale, al “self achievement” e a questa, quindi, è legata la partecipazione sociale. Melanconia e Neurastenia diventarono negli anni ottanta dell’Ottocento sino alla fine della prima guerra mondiale un modo di vita e una concezione del mondo. In questo la psicoterapia medica, per sua cultura originaria deve collaborare e individuare i modi in cui determinate culture concepiscono la responsabilità individuale e quella collettiva, attraverso l’osservazione profonda dei meccanismi sociali e individuali che generano diseguaglianze e soprattutto la modalità con cui le diverse culture le giudicano e le misurano.
Infatti la deriva è evidente nell’uso di psicofarmaci che è quadruplicato negli ultimi trent’anni (oggi consumati dal 25% della popolazione USA, dal 10% di quella Europea, per non parlare dei bambini diventato selvaggio terreno di marketing e, malgrado gli investimenti sulla ricerca scientifica (comunque un terzo inferiore a quelli sul marketing) non sappiamo come queste sostanze agiscano né quale sia la loro traduzione neuro-sinaptica sulla psicopatologia. Eppure nel 2019 sono stati pubblicati 64.646 articoli sulla salute mentale, il che rappresenta il 4.6% delle pubblicazioni scientifica totali dell’anno.
La politica della salute, come emerge dal nuovo Atlante della salute mentale dell’Organizzazione mondiale della sanità 2020 offre un quadro deludente di fallimento mondiale nel fornire alle persone i servizi di salute mentale di cui hanno necessità e questo già prima dei nuovi bisogni indotti dal COVID-19.
L’ultima edizione dell’Atlas, che include dati provenienti da 171 paesi, fornisce una chiara indicazione che l’attenzione prestata alla salute mentale negli ultimi anni non ha portato a un aumento della qualità dei servizi mentali in linea con le esigenze di salute.
Il coinvolgimento dei medici di medicina generale, sebbene siano indicati come indispensabile porta di accesso alla salute (e quindi alla salute mentale) dallo Statuto dell’OMS-WHO, dalla dichiarazione di Alma Ata del 1978, di Ottawa del 1986 e per quelle contemporanee di Shanghai del 2016 e di Astana 2018 è pressoché limitato agli aspetti bio-farmacologici o al diretto ricovero in casa di cura o in ospedale psichiatrico ai primi sintomi di disagio mentale dei propri assistiti. Il 53% delle Nazioni che ha risposto al quesito dell’Atlas (per questo item, però, solo la metà) dedica oltre la metà della spesa psichiatrica agli ospedali psichiatrici, evidenziando la predominanza di una attribuzione di funzione custodialistica alla psichiatria, disattendendo le reiterate raccomandazioni dell’OMS da settant’anni sulla necessità di porre le cure primarie come reale Hub della salute mentale.
Circa una collaborazione formalizzata con gli utenti (stakeholder compresi) o con associazioni collegate, di 165 nazioni che hanno risposto al quesito su 192 rappresentate, il 35% ha risposto positivamente, 45% per l’EU. Quindi poche nazioni e comunque disomogenee, se teniamo conto che le suddivisioni regionali della WHO sono molto vaste; quella America comprende Nord, Centro e Sud, quella Europea comprende tutti gli stati EU e dell’ex URRS.
Nel 2019 Dainius Puras, Rapporteur della Commissione per i diritti umani dell’ONU, ha espresso un giudizio inappelabilmente negativo sulla gestione della salute mentale, attribuendolo a una psichiatria troppo succuba del modello bio-medico che trascura i fattori sociali fortemente intervenienti.
Per concludere, la SIPM per decenni ha visto aule congressuali gremite e prestigiosi professori universitari, direttori e primari portare solidi contributi scientifici e clinici, aggregando sempre più giovani medici e psicologi (gli psicologi sino alla legge 56/86) attivi partecipi ai dibattiti e assidui contributori scientifici, sempre pubblicati negli atti congressuali. Si vorrebbe ora riaggregare i professionisti della salute mentale che sentono la necessità di recuperare gli aspetti interpersonali del proprio lavoro a qualsiasi stadio si trovino e qualsiasi il loro orientamento psicoterapeutico e ripristinare una rete che ci porti a confronti, recuperi storici, progettualità operative.
Pier Maria Furlan
1 – Alain Ehremberg, La società del disagio, Piccola Biblioteca Einaudi, Edizioni Giulio Einaudi, 2010 (Odile Jacob, Paris 2010), pg XV:
2 – Richard Sennet, Insieme, Feltrinelli 2012.