Il film Second Chance di Susanne Bier, regista danese che ha ottenuto l’Oscar per In un mondo migliore (2011) è una pellicola del 2014 ed narra una storia di tragica genitorialità che indaga, con non poca crudezza, le dinamiche, profonde e laceranti, di un “modello” di famiglia la cui armoniosa apparenza cela un puzzle feroce di tasselli di verità inconfessabili.
Nel film abbiamo visto in contrapposizione, le dinamiche tra i felici e borghesi Andreas ed Anna in rapporto alla coppia Tristan-Sanne, completamente allo sbando. Il risultato finale è secondo me apparentemente sconcertante , specialmente in relazione alle scelte e alle azioni contrastanti delle due maternità messe in gioco, dove non c’è un bianco e un nero, bene e male si intersecano, invece, in maniera spietatamente veritiera.
A tal proposito, la stessa regista afferma: “Questo non vuol dire che non esistano il bene e il male, in senso morale, ma una situazione simile amplifica la nostra comprensione del perché gli esseri umani si comportino in modi non sempre apparentemente comprensibili”. In una successiva intervista continua“Con il mio sceneggiatore volevamo fare qualcosa che si scontrasse con la nostra convinzione che alcune persone sono migliori di altre, più giuste di altre. Chi siamo noi per pensare di essere migliori?” In una conferenza stampa, successiva alla proiezione del film, era presente l’attore Nikolaj-Coster Waldau, il quale, alla domanda su quanto siano state difficili le scene della morte del bambino e delle condizioni pietose dell’altro ha risposto: “E’ stata proprio dura, perché un bambino rappresenta la quintessenza della purezza, dell’innocenza. Ognuno di noi quando vede un bambino sente l’istinto di abbracciarlo, di proteggerlo, di tenerlo lontano da ogni male. […] La scena forse più dura è stata quando con mia moglie ci svegliamo di notte e vediamo che il bambino è morto. Non posso negarlo, è stata veramente una scena durissima”.
Second chance in fondo vuole dimostrare l’errore di una dicotomia -giusto sbagliato- La Bier, nell’affrontare questa separazione manichea, sceglie di appuntare la sua attenzione sulla figura di Andreas, ligio poliziotto, marito accudente ma, soprattutto, padre amorevole. Spostando lo sguardo sulla paternità, in antitesi con una maternità che si vuole appartenente ad ogni donna, la regista danese, infatti, sovverte le regole del legame filiale che rivela, scena dopo scena, tutto il dolore di un processo in grado di trasformare, anche in modo crudele, l’intera esistenza. Second Chance, quindi, non soltanto capovolge il ruolo materno ma, attraverso quello paterno, traccia una parabola feroce dell’umana debolezza di fronte al raggiungimento di un desiderio che sembra travalicare ogni ostacolo. Essere padre o essere madre non è una condizione socialmente imposta ma una sorta di vocazione, il cui istinto non risiede in ciò che si è, né in ciò che si fa ma nell’atto, semplice e nel contempo complesso, del donarsi all’altro.Fare il genitore è senz’altro complicato. Lo stesso Freud, in uno scritto del 1937, lo riteneva un mestiere impossibile, perché i risultati dell’educazione sono imprevedibili e i figli possono prendere strade inaspettate. Può succedere che un bambino proveniente da un ambiente colto e ricco di risorse prenda una direzione profondamente diversa, come capita alle piante che crescono in una serra. Ma può anche avvenire che il figlio di una famiglia senza molte risorse culturali ed educative raggiunga grandi risultati.I termini “genitoriale” e “genitorialità” sono apparsi abbastanza recentemente nel linguaggio psicoanalitico,e pur rintracciando l’etimologia di entrambi nella parola genitore, colui che genera , di fatto vengono, nell’uso comune, utilizzati per indicare il processo attraverso il quale si diventa genitore da un punto di vista psichico. Parallelamente la parola funzione rinvia a qualsiasi attività dell’organismo che concorra alla preservazione della vita individuale e alla conservazione della specie . Potremmo quindi intendere la funzione genitoriale come quel lavoro psichico che un genitore mette in campo nell’incontro con un figlio reale, sempre immaginario, con la finalità di sostenerne lo sviluppo della vita psichica.
Il lavoro clinico con i pazienti ha permesso negli anni,in modo sempre più specifico, di definire l’importanza della relazione delle figure genitoriali con il bambino permettendoci di identificare alcune funzioni ritenute fondanti il processo di sviluppo del soggetto.Con D. W. Winnicott, che ha occupato un posto significativo e originale nella scuola inglese di psicoanalisi, si è passati ad una osservazione attenta della diade madre-bambino giungendo ad elaborare i concetti di madre-ambiente e di holding che hanno fondato il suo modello di setting analitico. La sua famosa frase: ” Un neonato è qualcosa che non esiste” intendendo, ovviamente, che ogni volta che si trova un neonato si trova la cura materna, e senza la cura materna non ci sarebbe nessun neonato”, indica come il suo pensiero e la sua clinica diano origine ad uno sguardo psicoanalitico orientato indissolubilmente sulla relazione madre bambinoIl bambino a causa della sua immaturità biologica (Hilflosigkeit) può sopravvivere solo se le cure materne gli assicurano un soddisfacimento dei suoi bisogni così da sentire l’ambiente adatto a lui, alla dipendenza di un’onnipresenza illusoria. La possibilità per il piccolo di maturare una capacità di riconoscimento di una realtà al di fuori di lui, necessita della presenza di una madre “sufficientemente buona” capace di adattarsi attivamente ai bisogni del bambino. Per esempio Winnicott pur riferendosi prevalentemente all’importanza delle cure materne “abbastanza buone”, non trascura la rilevanza della funzione paterna “, ciò include i padri; ma i padri mi debbono permettere di usare il termine “materno” per descrivere l’atteggiamento d’insieme verso i bambini e verso la loro cura” La possibilità per la madre di fornire delle cure adeguate è, d’altronde, anche in relazione con il sostegno che il padre è in grado di fornire.
La funzione paterna svolge un ruolo fondamentale nell’interrompere quella dimensione di rispecchiamento fra madre e bambino e allo stesso tempo “da senso alla diade, favorendo il passaggio da essere un tutt’uno, o non essere, a una posizione intermedia che permette di riconoscere come estraneo, ma non ostile, tutto ciò che non è interno alla diade”. Il fallimento della funzione paterna fa si che per il bambino sia difficile uscire dalla relazione simbiotica con la madre. La legge del padre funziona come una legge di separazione: frustrando il bambino, costringendolo a sospendere la ricerca immediata di soddisfazione gli da modo di percepirsi un individuo diverso dagli altri.
Di Giusebbe Ballauri