Di Pier Maria Furlan
PREMESSA
La più antica “sindrome” psichiatrica che ha resistito da oltre duemila anni è la malinconia. La sua definizione, tuttavia, così come la descrizione psicopatologica, le attribuzioni etiologiche e la sua stessa collocazione antropologica variano nei secoli secondo la cultura e l’etica dominante. Anche la sua incidenza varia secondo quanto sia compreso o escluso dalla definizione sindromica e dalla stessa questione se trattasi di malattia o aspetto legato alle umane vicende.
Anche un breve sguardo storico dimostra come le stesse manifestazioni di sofferenza abbiano avuto collocazioni culturali, filosofiche, scientifiche ed epidemiologiche profondamente diverse; questo allo scopo, soprattutto, di osservare se oggi non stia avvenendo una selezione sintomatologica all’interno della complessità della malinconia, strumentale alla convergenza d’interessi economici, di categoria e politici. In altre parole, se non si stia assistendo a una profonda psichiatrizzazione (e medicalizzazione) della società, ove il disagio sociale e gli stili di vita conflittuali sono trasformati tramite la psichiatria in malattie discrete e di conseguenza affidate ai professionisti della salute (mentale) con una prevalente risposta di natura farmacologica.
La domanda che ci si pone in questa relazione è se non si stia verificando uno dei consueti processi di delega alla psichiatria e alla medicina, volto a trasformare conseguenze di eventi problematici sociali e politici in fattori clinici, complice, seppur spesso o in parte inconsapevole, la stessa psichiatria.
Non si vuole qui negare la gravità e il peso della condizione depressiva severa (come quelle descritte da Kraepelin, Bleuler, Schneider, Ey, Arieti…) ma sottolineare il sospettoso dilagare diagnostico di una condizione sindromica (soprattutto per quanto riguarda l’attuale allargamento delle caratteristiche della depressione maggiore e della depressione bipolare I e II) con una diffusione dell’incidenza e prevalenza difficilmente spiegabile, considerando il miglioramento del sistema assistenziale, il numero di nuove molecole e il netto miglioramento delle condizioni di vita, almeno per quanto riguarda il mondo occidentali e i Paesi con un PIL in aumento e un Social Burden in diminuzione.
Come meglio specificato in seguito Bleuler attribuiva alla malinconia un’incidenza dello 0,5% sulla popolazione; oggi a seconda della fonte e delle modalità di classificazione e di rilevazione l’incidenza sarebbe di dieci volte maggiore e questo malgrado l’introduzione di due generazioni di psicofarmaci antidepressivi e di un’estensione capillare dell’assistenza.
Inevitabile il sospetto che siano stati modificati i parametri d’inclusione e di valutazione.
Sosteneva, infatti, Aristotile che tutti gli uomini eccezionali in politica, filosofia, arte, poesia, insomma tutti i grandi intellettuali, erano manifestamente malinconici: come Empedocle, Platone, Socrate, Bellerofonte, Saffo, Aiace e Aristotile stesso. Lui sosteneva fossero tutti malinconici (oggi depressi) partendo dall’iniziale lezione di Platone, citato nel Problema XXX1(suo o di un filosofo conosciuto come pseudo Aristotile) che invita alla responsabilità individuale come fattore sostitutivo della polis, concludendo che la malinconia è fattore comune e necessario di tutti i grandi uomini della letteratura, della politica, delle arti.
Una ricerca del British Journal rileverebbe una correlazione tra lavoro creativo e depressione bipolare, presenza di un parente bipolare o schizofrenico. mentre non è stata trovata correlazione con la depressione monopolare.
La stessa mania era scomposta in furore poetico, furore profetico, furore erotico. La melanconia costituirebbe secondo Pigeaud, cit da Mancini, la malattia culturalizzata per eccellenza. Infatti attraverso la sofferenza del corpo e dello spirito essa stimola alle forme più elevate e astratte di conoscenza per se stessi, quindi sollecita l’immaginazione culturale, producendo sapere.
Gli Antichi Romani, soprattutto nel I° scolo A.D., quando si verificò una epidemia di suicidi, la collocarono all’interno del tedium vitae, comprendendo tuttavia (Seneca) che era da collocarsi nella profonda trasformazione sociale del consolidamento dell’Impero Romano.
La melanconia, nel Medio Evo viene assorbita all’interno dell’etica religiosa che la condanna, ridefinendola Accidia e collocandola all’interno dei sette peccati capitali. Sarà Marsilio Ficino a rivalutarla, considerandola condizione indispensabile dei grandi uomini e saranno Paracelso e il napoletano Giovanbattista Dalla Porta (1535-1615) a iniziare a liberare la malattia mentale dagli aspetti etico religiosi (non la malinconia). Con la Riforma, la liberazione dal peccato sarà effettiva, come vediamo dal verso “Nothing’s so dainty swett as lovely melancholy” (nulla è così dolcemente delicato dell’amabile malinconia) di John Fletcher 1579 – 1625. Straordinaria la pubblicazione in italiano dell’ <Anatomia della malinconia> di Robert Burton (1621-1651) di 2849 pagine (testo in inglese e italiano) che costringe vedere quanto riduttivo sia confinare la malinconia tra i disturbi del tono dell’umore. Il Romanticismo ne farà una modalità di vita. Scrive Ippolito Pindemonte, durante il passaggio tra l’Arcadia e il Romanticismo) ripreso poi da Vincenzo Bellini, in Ninfa gentile:
Malinconia,
ninfa gentile
la vita mia
consegno a te
I tuoi piaceri
chi tiene a vile
ai piaceri veri
nato non è.
Anche John Keats 1795-1821, nello stesso periodo componeva:
si, nello stesso tempio del Diletto,
Malinconia velata ha il suo santuario
sovrano, non veduta da nessuno
se non da chi contro il palato fine
con ostinata lingua sa schiacciare
i grappoli di Gioia. La tristezza
della potenza tua, Malinconia,
gusterà la sua anima
fra i tuoi trofei nubilosi sospesa.
Raskolnikov in Delitto e Castigo proclama la grandezza della tristezza inseparabile da un’intelligenza elevata e un grande cuore. L’ autore Fëdor Michajlovič Dostoevskij affermava “soffrire, soffrire molto è necessario per scrivere”. Petar Iljič Čajkovski, componendo la Sinfonia 6 in Si minore Patetica affermava “soffro quindi sono”. Non a caso fu così denominata alla sua morte poco dopo la prima rappresentazione.
Già nel 1755 David Hume scrive il “Saggio sul suicidio”; Edward Moore propone gli “alberghi del Suicidio, Il “Times” aprì un pubblico dibattito sul suicidio (1786) come “soggetto generico di conversazione” (da Minois, 2005)
Arthur Schopenhauer, in “Il mondo come volontà e rappresentazione” scrive: “La vita oscilla come un pendolo fra il dolore e la noia, sue due costituenti essenziali.
Ma il suicidio non sarebbe la rinuncia all’ “élan vital” di Henri Bergson poiché “il suicida vorrebbe vivere solo che non è soddisfatto di ciò che gli viene offerto. Distruggendo il suo “fenomeno” il suicida non rinuncia, dunque, al voler vivere ma unicamente al vivere”.
Giacomo Leopardi, abbina la malinconia alla conoscenza:
“L’ostinata, nera, orrenda barbara
Malinconia che mi lima e mi divora
e con lo studio s’alimenta
e senza studio s’accresce”, come poi abbinerà Friedrich Nietzche la melanconia alla volontà della conoscenza, sino a Freud che ne fa (come già aveva postulato Denis Diderot 1713 – 1784) una conseguenza inevitabile della socializzazione, intesa come repressione delle pulsioni.
Sempre nell’intento di una revisione epistemologica del concetto, questo si consolida come drammatico evento esistenziale nel secolo scorso ma, come avvertì il grande filosofo italo tedesco Romano Guardini in “Vom Sinn der Schwermut “(dal senso della malinconia) “La melanconia è un qualcosa di troppo doloroso, raggiunge troppo profondamente le radici della nostra esistenza umana che noi la si possa abbandonare agli psichiatri”.
Non dissimile la visione della depressione come stadio esistenziale evolutivo quella di Ralph Greenson che affermava: Si è gravemente danneggiati nella propria professione di analista se non si è provata una forte depressione”.
La depressione, quindi, traslando, Guardini, e Greenson, è fenomeno troppo complesso per essere ridotto a un “semplice” disturbo dell’umore, peggio se attribuito alla disfunzione di alcuni neurotrasmettitori o semplificata in modelli animali.
La teoria serotoninergica (peraltro la depressione non è dovuta a carenza di serotonina) sembra un ritorno a quella dei quattro umori, l’atra bile (peraltro mai osservata) che prevale sul sangue, il flegma e la bile gialla.
L’impossibilità di trovare una linea di demarcazione tra normale e patologico è evidente nella melanconia, ricerca che ha sempre determinato una maggiore accentuazione degli aspetti mentali sino al DSMIII che, riducendola a un disturbo dell’umore, e restringendo così la complessità della condizione depressiva, ha semplificato in una pars pro toto tale stato, oggettivandolo o, con termine seppur datato, reificato.
La una transizione depressiva, come condizione antropologica è anzitutto connaturata allo sviluppo, alla maturazione e all’esistenza stessa dell’essere umano (il lutto come reazione alla perdita dell’oggetto di Sigmund Freud o lo stadio normale dello sviluppo di Melanie Klein) e, seppur anche qui con un certo riduttivismo, alle modalità ambientali, socio-culturali e individuali di affrontare ed elaborare la perdita.
Infatti, tralascio di approfondire in questa sede, che l’appiattimento a disturbo dell’umore della melanconia e dei disturbi depressivi li rende avulsi dal contesto in cui si presentano e nel quale vengono valutati. Un esempio per tutti la “Neurasthenia” statunitense degli anni 1880-1920, l’American Nervousness che dilagò nelle grandi città industriale diventando stile di vita e modalità di rapportarsi socialmente era profondamente legata agli ideali puritani e alla cultura produttivistica e competitiva, privilegiante l’individualismo dell’American Way of Life. Si tratta di un lungo periodo poco conosciuto in Europa e comunque scarsamente comprensibile se non ci si rapporta al modello culturale protestante-prestazionale degli Stati Uniti.
Per una visione più recente della melanconia, poi depressione, e che ne spieghi in parte la diffusione epidemica almeno a livello diagnostico, si deve risalire alla massiccia sottrazione di fondi pubblici alla psichiatria negli Stati Uniti negli anni sessanta, motivata con la mancanza di prove scientifiche sull’efficacia degli interventi clinici. Erano i tempi dei DSM I e II con poco più di cinquanta sindromi. L’American Psychiatric Association creò così una task force volta a costruire una classificazione utile alla ricerca e alla raccolta fondi. Tale utilità fu ravvisata soprattutto a favore d’interventi di natura biologica, nell’interesse delle case farmaceutiche (si vedrà in seguito grazie alla legge sulla “disclosure” (la trasparenza della documentazione originaria) e il conflitto d’interessi l’entità delle sovvenzioni alle ricerche e alla stessa APA dalle multinazionali degli psicofarmaci), al punto che John Frosch, psicoanalista, reclutato dal Chair della Task Force del DSM III Robert Spitzer (peraltro anche lui psicoanalista) si dimise dopo due anni, non riuscendo a far accettare nessun concetto psicodinamico. Come dice Wilson (cit. De Girolamo e Migone, 1995) i clinici furono rimpiazzati da ricercatori a orientamento biomedico, diventando così le voci più influenti del settore. “Così con il DSM III, sostenendo di utilizzare un approccio ateorico (in realtà utilizzò un approccio fenomenico di marca Kraepeliniana, quindi per nulla ateorico) il sistema diagnostico minimizzò le differenze tra i vari sottotipi di depressione concettualizzando una sindrome allargata definita “episodio depressivo maggiore” caratterizzata da uno o più episodi depressivi maggiori. Tale uniformizzazione della diagnosi ora include milioni di pazienti, diventando un “target” attraente per le industrie farmaceutiche (Kahn, 2012).
Afferma, infatti Khan che questa inclusione di ogni forma di depressione non solo portò, attraverso l’estensione dei criteri d’inclusione nei trial farmacologici all’inclusione di milioni di persone affette da blande depressioni ma altresì a un rilevante aumento del consumo di psicofarmaci e a un appiattimento della differenza di effetto tra la molecola attiva e quelle inerti dei placebo
Non si vuole, qui, minimizzare la complessa risposta dell’organismo ai placebo, studio che sta vieppiù acquistando importanza terapeutica (vedi gli studi di Fabrizio Benedetti a Torino), ma ribadire la grossolana generalizzazione operata dal DSM III. È qui opportuno ricordare che Robert Spitzer, il capo della Task Force del DSM III, resosi conto degli effetti devastanti di tale generalizzazione, lottò poi trent’anni contro questo danno (cit. da Allen Frances – 2009).
Inoltre, nella Draft Edition del DSM III, pubblicata nel 1977 per le “prove sul campo” (field testing) e rivista da Richard Friedman troviamo che “La distinzione tra psichiatria e psicoanalisi è importante nel prendere in considerazione il DSM III perché mentre molti psichiatri e alcuni istituti psicoanalitici affermano l’esistenza di un rapporto privilegiato tra la medicina e la psicoanalisi, con questo libro l’ American Psychiatric Association ha abbandonato le sue richieste (“claims”) alla psicoanalisi”. La categoria diagnostica delle “nevrosi” è stata eliminata dal DSMIII. Questo rappresenta ben di più di uno spostamento di nomenclatura” (cit. da DSM).
L’avvento del DSM-III e l’allargamento della definizione della Depressione Maggiore ha portato all’inclusione delle depressioni leggere e moderate nei trials dei farmaci antidepressivi.
Quindi (aggiungo io) a una distorsione dell’efficacia degli psicofarmaci…anche perché è ormai noto che le “mild and medium depressions”, come sono nosograficamente definite, tendono ad attenuarsi e a passare senza interventi strutturati.
Dobbiamo ricavare che lo scopo del DSM III era ideologico e non, come dichiarato, “ateorico”. Si vedrà in seguito la forte influenza dell’industria farmaceutica; già allora, comunque, il 60% dei componenti della Task Force aveva rapporti d’interesse con le ditte farmaceutiche, come denunciato da Marcia Angell, qui di seguito più nel dettaglio citata.
L’abolizione della categoria delle nevrosi non impedisce, comunque, delle pubblicazioni a oltre venticinque anni di distanza da parte della rivista ufficiale dell’APA, l’American Journal di dati epidemiologici sulle “depressive neuroses”. In questo stesso lavoro di Silverman e al. del 2007 vi sono comunque significative differenze numeriche in meno. La depressione è data sotto l’1/1000 persone e l’incidenza tra il 2 e il 3/1000, appunto, delle nevrosi depressive.
Partendo da questi numeri si osserva una forte divergenza secondo le fonti. Viene attribuito all’OMS una valutazione di c. 350 milioni di depressi nel mondo, mentre un articolo valutato e considerato da Cochrane valuta l’esistenza di depressi nel mondo in 100 milioni. Va notato che il dato attribuito all’OMS appare spesso citato in pubblicazioni, in articoli sponsorizzati o da psichiatri che si lamentano di mancanza di risorse, mentre quelli valutati da Cochrane sono garantiti dalle “disclosure” come liberi da qualsiasi interesse.
Inoltre i tassi d’incidenza variano significativamente secondo le Nazioni: da 1,5 casi per 100 adulti nella Cina Nazionalista a 19 per 100 adulti a Beirut così come la prevalenza da 0.8 per 100 adulti nella Cina Nazionalista a 5,8 in Nuova Zelanda. Circa i disturbi bipolari variano da 0,3 in Cina Nazionalista a 1,5 per 100 abitanti in Nuova Zelanda . L’episodio depressivo maggiore (MDE) varia enormemente dal 3% in Japan al 16.9% negli USA,
Inoltre, non solo l’inclusione e generalizzazione del termine depressione di tutte le forme di disturbo dell’umore introduce delle variabili arbitrarie ma, anche volendo solo indicare una forma di depressione, la “depressione maggiore” è necessario segnalare che la forma definita da Eugene Bleuler aveva caratteristiche profondamente diverse da quelle della attuale manualistica. Per il clinico di Zurigo (sottolineo l’attribuzione “clinico”, essendo tra i primi psichiatri che trascorreva tutta la giornata ad ascoltare i ricoverati, come narra Ellemberger, perché, scapolo non aveva incombenze familiari) il che significa che molti predecessori e contemporanei, ad es. Griesinger o lo stesso Jaspers spesso teorizzavano senza una diretta conoscenza dei ricoverati.
Nel suo manuale (dal 1913 aggiornato fino agli anni sessanta) la “Depressione (Melanconia)” –la parentesi con l’abbinamento introduce nel suo trattato il capitolo-, è riferita come presente in meno dello 0,5 della popolazione, ha una durata di almeno tre mesi, sino a sei e più. Nell’ambito della ciclotimie, non tratta l’episodio monopolare e soprattutto non fa una distinzione tra tipo I e II, differenziazione che riducendo di molto l’episodio maniacale consente inclusioni anche arbitrarie che scartano la “necessaria presenza” della mania”. Se poi la durata così lunga venisse da qualcuno giustificata in quanto in era pre-farmacologica, è facile rispondere che non si comprende perché le task force, essendo dichiarato dalla stessa industria che i triciclici e gli Imao agiscono per lo più dopo tre settimane, non abbia almeno aggiornato la durata a un periodo farmacologicamente coerente ma riducendolo a 15 giorni, appunto.
Inoltre, se gli studi epidemiologici sottolineano quanto i fattori personali incidano in maniera significativa: i separati e i divorziati hanno livelli significativamente più alti rispetto agli sposati o stabilmente conviventi e tra costoro più gli uomini delle donne nella maggior parte delle Nazioni, mal si comprende come si possa sostenere che la depressione rappresenti una sindrome discreta e per di più universale. A questa variazione si aggiunga anche una maggior prevalenza e incidenza della depressione negli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (pubblicato dalla rivista USA di medicina generale, non tacciabile di omofobia). Numerose variabili determinabili da eventi avversi sono inoltre individuabili sia nelle ricerche transnazionali che in quelle nazionali: basso livello di formazione, gravidanze in adolescenza, fratture matrimoniali, mancanza o precarietà lavorativa e lavoro dequalificante e mal pagato. Tutte queste variabili non sono di tipo individuale, ma appartengono a categorie sociali, antropologiche. Dovrebbero, in pratica, giustificare il ritorno alle nosologie anni cinquanta-settanta del secolo scorso che distingueva la depressione reattiva da quella psicotica, come nel Manuale di Psichiatria di Silvano Arieti.
Questa generalizzazione pare spesso giustificare lavori scientifici che additano nei fattori genetici la causa principale o dominante della depressione anche nella definizione generica o comunque riferendosi ai criteri del DSM IV e ora V, omettendo quanto qui viene sostenuto e ribadito da numerose meta analisi attente a sostenere che la depressione maggiore è un disturbo complesso che non deriva né da un solo disturbo genetico né da soli fattori ambientale ma piuttosto da entrambi e che nel campo della genetica bisogna stare molto attenti a discriminare la diretta dipendenza di alcune malattie, introducendo maggior attenzione al concetto di “plasticità neuronale”.
È sempre più evidente che questa genericità e mobilità tra criteri d’inclusione nelle sindromi psichiatriche siano determinate da molteplici fattori (non escluse la connivenza di molti psichiatri restii a dedicare del tempo ai pazienti e a perfezionare delle tecniche di ascolto, le tempistiche introdotte dai sistemi assicurativi e dalle aziendalizzazioni della sanità, le resistenze dei pazienti alla faticosità dei processi d’insight…) ma che si traduce soprattutto in fattori comunque favorevoli al mondo delle “Big Pharma”.
Una vasta ricerca sostenuta dal National Institute of Mental Health (NIMH) tra il 2001 e il 2003, riscontrò che un ”astonishing” 46% della popolazione nordamericana soddisfaceva i criteri per almeno una malattia mentale del DSMIII dell’ American Psychiatric Association. Tradotta in consumo di farmaci da una pubblicazione di Epstein-Lubow, Rosenzweig 2010) si apprende che l’11% di tutti gli adulti negli USA ha preso nel 2010 un antidepressivo (Medco 2011). Il 4%, dei bambini americani fa uso di stimolanti (Vitiello, Zuvekas, Norquist, 2006) ma secondo Allen Frances nel 2014 si è giunti a un uso del 10% della popolazione infantile. Circa gli anziani al 25% dei residenti in casa di cura negli USA sono somministrati antipsicotici. In Canada tra il 2005 e 2009 l’uso degli psicostimolanti è salito del 36% e degli antidepressivi SSRI del 44% (Pringsheim, Lam Patten 2011).
Come si può non ritenere che anche l’infanzia sia diventata mercato appetibile, tenendo presente la complete meta analisi di Polannczyk GV, Willicut EG, Kieling C, Rohde LA sul Int J Epidemiol. 2014 Apr;43(2):434-42 su 154 articoli che, tra l’altro confermando precedenti riscontri, l’aumento numerico di bimbi che soddisfano i criteri di ADHD (attention-deficit / hyperactivity disorder) deriva da caratteristiche (artifici?) metodologici delle ricerche, perché da circa trent’anni il loro numero non è variato allorquando si ricorre a procedure diagnostiche standardizzate.
Questo massiccio e ingiustificato consumo va di pari passo con una diffusa incoerenza diagnostica rilevata, ad esempio, nello studio longitudinale di oltre 12 anni di Baca-Garcia e al su 34.368 pazienti e 449.317 referti condotto in tre setting psichiatrici diversi e che conclude per una “rilevante instabilità nel tempo delle diagnosi che può rispecchiare una limitazione della nosologia” (Strong instability of diagnoses, which could reflect limitation of the nosology) .
La dimensione degli effetti positivi evidenziata degli attuali antidepressivi, quelli definiti di IIa generazione, non solo resta opinabile ma altresì i benefici a lungo termine e i danni circa l’utilizzo continuativo di terapia antidepressiva per una prevenzione della depressione ricorrente nella popolazione anziana non sono chiari né può essere espressa alcuna certezza a questo proposito “no firm treatment recommendations can be made”. Questa recente ricerca include anche lo studio degli effetti a lungo termine dei triciclici, con le stesse incertezze rispetto agli Imao ma sottolineando il rilevante drop out a 12 mesi (va detto presente in analoga percentuale anche per i trattamenti psicologici). La ricerca, inoltre, replicava una precedente degli stessi autori del 2012 che sosteneva non fossero sufficientemente provati e studiati gli effetti positivi e negativi delle terapie a lungo termine negli anziani e nemmeno vi fossero dati statisticamente sufficienti su quelle negli adulti; effetti positivi a 12 mesi erano sostenuti in solo tre piccole ricerche con diverse classi di antidepressivi e in popolazioni scarse ed eterogenee (only three small studies with relatively few participants using differing classes of antidepressants in clinically heterogeneous populations).
Gli effetti positive dei placebo sono stati anche contestati circa la loro stabilità e durata. Tuttavia, e contrariamente a quanto sosteneva Quitin e al. negli Arch. Gen. Psychiatry (1984), vi sono prove che i pazienti che rispondo efficacemente ai placebo mantengono la buona risposta per un periodo considerevole di tempo. Khan (cit.) quattro su cinque pazienti che hanno risposto positivamente ai placebo mantengono tale condizione per sei mesi e oltre. Citando Mayberg si è constatato che coloro che rispondono bene al trattamento con Fluoxetina e il gruppo che risponde bene al placebo, all’esame con Risonanza magnetica hanno lo stesso aumento di metabolismo cerebrale di glucosio.
In sostanza nel tempo con la riduzione agli aspetti timici (e comunque semplificati), si sono messi in primo piano gli aspetti affettivi delle condizioni distimiche a discapito delle componenti immaginali, cognitive, comportamentali, sensoriali, dinamiche, interpersonali, biografiche e eidologiche-culturali, importanti almeno quanto le componenti fenomeniche della depressione, senza contare quelle fisiologicamente legate a fasi maturative dello sviluppo e alle componenti sociali.
Si è “persa” una lunga tradizione di ricerca clinica ed empirica a favore di una medicalizzazione e una biologizzazione della malattia mentale e un’invasione psichiatrica dell’etica, dell’estetica, della sociologia descrittiva, e quindi della autopercezione del proprio stato di salute e malattia, in somma una pervasività antropologica.
Riprendiamo delle cifre esposte. Un messaggio sponsorizzato dall’industria farmaceutica che cita dati grezzi dell’OMS indica in 350 milioni i soggetti depressi nel mondo e in 16 milioni il numero di cittadini USA che nel 2012 ebbero almeno un episodio depressivo. Lavori valutati da Cochrane riportano la presenza di depressione in 100 milioni di soggetti nel mondo Differenze di questa entità costringono a porsi delle domande sulla modalità scientifica di rilevazione oltre che sui parametri a monte della ricerca
Così come obesità e diabete sono considerate soprattutto o almeno anche disturbi legati al benessere così la depressione in senso generale ha dimostrato di essere in stretto rapporto non solo con il PIL (prodotto interno lordo) ma anche con il PPP (Purchasing Power Parity), l’indice di ricerca di parità di reddito o di ricerca di riduzione della diseguaglianza di reddito, insomma l’indice di ricerca di benessere della società.
Naturalmente non per forza questa semplice correlazione può essere considerata causalisticamente provante. Senza dubbio concorrono numerosi altri fattori ma tra questi troviamo fattori legati al benessere, all’industrializzazione, insomma allo sviluppo in senso lato. Ad esempio, sempre secondo l’OMS gli Stati Uniti d’America per quanto riguarda i disturbi mentali, in particolare ansia, disturbi dell’umore, disturbi del controllo degli impulsi, patologie da dipendenze, raggiungono la più alta percentuale mondiale di popolazione al mondo, 26,4%
Peraltro è interessante rilevare dai dati OMS che gli Stati Uniti hanno la più alta percentuale di disturbi dell’umore da un’ inchiesta definita shock dallo stesso istituto d’indagine Gallup-Healthways. Well-Being Index 2013 ha dimostrato che se sei senza lavoro hai il doppio di possibilità di essere depresso, con una differenza dal 10% al 19% di soggetti senza lavoro da due settimane ai senza lavoro da un anno che ricevevano un trattamento antidepressivo.
Negli USA la pubblicità dei farmaci (quindi degli psicofarmaci) i DTCA (Direct To Consumer Advertising) non solo è consentita, seppur sotto un blando controllo dell’FDA (Federal Drug Administration), su qualunque mezzo d’informazione, a differenza ad esempio, dell’Europa ove è possibile solo in riviste specialistiche e in ambito scientifico competente, ma trova ampia diffusione soprattutto nelle televisioni. Così le aziende farmaceutiche hanno speso in pubblicità negli USA nel 2011 dai 4,5 ai 5,2 miliardi di US $, in particolare tramite, appunto, le televisioni
Per gli psicofarmaci in molte industrie il budget pubblicitario è superiore di 20/30 volte quello per altri prodotti c.d. etici. Dal 1997 al 2001 la spesa per ricerca è salita del 59%, quella per pubblicità del 145%. In Italia, malgrado sia consentita solo su riviste specialistiche, le immagini pubblicitarie inerenti farmaci antipsicotici sono oggetto di “bias” sessuale come dimostrato da Muscettola e coll.
Allen Frances, capo della task force del DSM, qui già citato, ha dichiarato in una recensione della Boringhieri (2013): “indubbiamente il nuovo DSM (V) sembra il solito enorme compromesso tra i poteri economici in campo, tra le spinte di politica sanitaria (assicurazioni, corporazioni di psicologi, psichiatri biologisti, psicoterapeuti, operatori dei servizi sanitari) e le dispute culturali che alimentano risvolti sociali, e che per stessa ammissione dell’American Psychiatric Association non ha potuto soddisfare le aspettative con cui era atteso”.
E aggiunge: “L’assenza di nuove scoperta o terapie non giustificano la stesura di un nuovo DSM”..
In realtà la giustificazione è largamente reperibile nelle 500 mila copie vendute del DSM III e nel milione del DSM IV.
Aggiunge Allen Frances in un’intervista al Corriere della Sera: “Le difficoltà della vita sono state associate a delle malattie. E ovviamente all’uso dei farmaci per curarle”.
Già Redlich* 50 anni fa si chiedeva :”quando siamo in grado di differenziare reali disturbi psichiatrici e reazioni omeostatiche a eventi sfavorevoli dell’esistenza umana
(“between true mental disorders and homeostatic reactions to adverse life events”).
CONCLUSIONE
Gli effetti non solo li vediamo (ma basterebbero già) nello stupefacente ( e, a mio avviso, clinicamente ingiustificato) incremento di vendite e consumo di farmaci ma anche nella deriva professionale e deontologica cui è soggetta la disciplina psichiatrica. Scrive
Assen Jablensky nella rivista psichiatrica oggi a maggior Impact Factor (World Psychiatry allora era la terza) nel 2010: “Il corpo di conoscenze e capacità la cui formazione include la psicopatologia e la fenomenologia clinica, sono diventati un corpo esoterico per molti (se non per tutti) gli studenti di medicina e specializzandi in psichiatria. La curiosità intellettuale che va di pari passo con il dover afferrare l’essenza della semeiotica psichiatrica, è vieppiù sostituita nell’addestramento degli psichiatri da un acritico affidarsi ai criteri diagnostici del DSM IV .
Marcia Angell, Direttore (Editor) del New England Journal of Medicine per 15 anni, dedicò un editoriale: “Il paradigma tecnologico della psichiatria ricalca la tendenza alla medicalizzazione della vita quotidiana che, a sua volta, è associato all’espansione del mercato degli psicofarmaci2. Nel contempo ha denunciato contributi a due psichiatri per 3,1 mln $) affermando: “Solo una irrilevante parte di coloro che definiscono i nuovi disturbi psichiatrici non ha rapporti d’interesse con le multinazionali dei farmaci”.
Appare rilevante che l’Editor di World Psychiatry (oggi la rivista specialistica a maggior I.F, oltre 48) Mario Maj scriva nel 2016: Alcune evidenze ci indicano che una parte considerevole degli psichiatri di qualsiasi parte del mondo non fanno riferimento ai sistemi diagnostici ufficiali nella loro attività quotidiana, o li utilizzano piuttosto solo come “strumenti di codifica” (i.e., usano i codici dell’ICD per la registrazione a livello delle cartelle cliniche o per altre simili esigenze, ma non hanno presente, nel momento in cui si servono di questi codici, le relative parti descrittive dell’ICD, o magari non le hanno mai nemmeno lette). Rispetto a ciò, di certo bisognerebbe fare qualcosa, e in parte qualche passo in avanti è già stato compiuto.
Affermazione per il futuro auspicabile ma per il passato dovrebbe far riflettere coloro che, anche da posizioni autorevoli, evocano dati (per lo più sempre catastrofici) sulla presenza di malattie mentali, sostenendo che siano scientificamente dimostrati e accompagnandoli da stupefatti commenti che i decisori politici non adeguino risorse e interventi alla catastrofe incombente.
Questi colleghi non vogliono rendersi conto che la catastrofe incombente è la sempre minor credibilità delle disciplina “psy”, l’eccessiva autoreferenzialità e soprattutto il conformismo di molti, scevri di revisione critica, da curiosità intellettuale e legati a interessi a dire poco gregari.
Gli psichiatri debbono reimparare a parlare con i pazienti e con la loro sofferenza, capirne le cause e far leva sulla disposizione individuale a superarla. Trasformare il “mal di vivere” in malattia non lo migliora, consente delle strumentalizzazioni quando non delle facili promesse.
Questo deve essere il senso della psicoterapia medica: distinguere le vere, gravi, invalidanti depressioni dalle reazioni fisiologiche a un mondo difficile.
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