Nella pratica clinica è esperienza diffusa come gli episodi maniacali possano rappresentare una vera e propria situazione di emergenza-urgenza, che necessita di ospedalizzazione, non eccezionalmente coatta.
Come ha detto lo psicanalista Ciro Elia (1979), la difficoltà è spesso reciproca: da un lato il paziente che non può riconoscere una condizione di malattia; dall’altro, su un piano controtransferale, il terapeuta, che può trovare molta difficoltà nell’identificarsi con una sofferenza che non appare, anzi, che viene negata da chi si proclama “signore del mondo”. Nell’ambito della istituzione il maniacale è spesso più rifiutato dello schizofrenico, «non semplicemente per la sua “pesantezza”, ma in quanto, con un Io relativamente integro e in una situazione di piena rivincita delle istanze pulsionali, è in grado di mettere in seria difficoltà la logica dell’istituzione stessa, con la sua esplosione di aggressività e “la follia” dell’Eros che straripa».
In realtà l’effettiva difficoltà nel trattamento del paziente maniacale deriva da una carente consapevolezza di malattia, come ha evidenziato Glen Gabbard (2000): “In linea con la generale negazione della malattia, questi pazienti in genere sostengono che i loro sintomi maniacali non fanno parte di un disturbo ma sono piuttosto un riflesso del loro modo di essere. (…) Spesso correlato a questa negazione vi è un altro tema psicodinamico che riguarda la scissione e la discontinuità psichica. Molti pazienti bipolari continuano a negare il significato dei precedenti episodi maniacali quando sono in condizioni di eutimia”.
Questi aspetti rendono ragione della necessità, in prima istanza, di un adeguato controllo farmacologico della sintomatologia. In particolare, il fatto che i disturbi del comportamento abbiano una significativa rilevanza clinica, insieme alla constatazione che la maggioranza dei pazienti presenta sintomi psicotici al culmine di un episodio affettivo, giustificano l’ampio impiego dei neurolettici. Da questo punto di vista, i nuovi antipsicotici sono da considerare i farmaci di prima scelta, non solo per la maggior sicurezza e tollerabilità rispetto a quelli tradizionali, ma anche per l’associazione dell’effetto antipsicotico a quello stabilizzante.
In seguito all’iniziale controllo farmacologico della sintomatologia e durante le fasi di eutimia è di assoluta importanza l’intervento psicoterapeutico, perché, come ha detto Jamison (1995), “in modo inesprimibile, la psicoterapia risana. Dà senso in qualche modo alla confusione, tiene a freno i sentimenti e i pensieri che impauriscono, restituisce un certo controllo e la speranza, e la possibilità di imparare da tutto questo”.