Le stereotipie motorie
Una descrizione accurata di alcuni tipi di stereotipie motorie è fornita da Jaspers: “Molti movimenti somigliano nel loro aspetto esteriore a movimenti atetosici, coreici ed a movimenti coatti (…) I malati fanno strane contorsioni con il corpo, si rotolano, si stendono rigidamente sulla schiena, contorcono le dita in modo bizzarro, lanciano gli arti. Altri movimenti danno l’impressione come se fossero reazioni a sensazioni corporee. I malati improvvisamente si toccano un lato dell’addome facendo contorsioni, premono le mani contro gli organi genitali, frugano con le dita nel naso, spalancano la bocca e vi infilano le dita, stringono gli occhi (…). La maggior parte di questi movimenti è di breve durata e al loro posto ne subentrano altri. Altre volte invece possono essere ripetuti infinitamente per settimane e mesi. Ballano, saltellano, fanno capriole, saltano, fanno esercizi ginnici e innumerevoli movimenti ritmici. Infine un ultimo gruppo di movimenti è caratterizzato da una particolare complessità e cioè dalla sua somiglianza con azioni sensate”.
Solo una parte delle stereotipie motorie è facilmente accessibile nel suo significato, in base alla storia del soggetto. In ogni caso, dal momento che il corpo, nelle sue parti e nei suoi movimenti, è strettamente connesso alla coscienza dell’Io, si può ipotizzare che le stereotipie motorie rappresentino una modalità regressiva, ma rassicurante per il soggetto, di poter essere-nel-mondo.
È noto che i primi rapporti di mediazione con la realtà e con le proprie fantasie passano attraverso situazioni di tipo ripetitivo: è il caso, per esempio, della favola che, avendo sempre la stessa trama, permette al bambino di giocare a prevederne la conclusione: questi stabilisce una ripetitività con cui comincia ad acquisire il rapporto con la realtà esterna, che è qualcosa che provoca paura, e con cui comincia a mediare gli aspetti pulsionali, che possono essere altrettanto spaventosi.
Le stereotipie motorie e i comportamenti manierati sono quindi finalistici, nel senso che hanno lo scopo di evitare, in modo parziale o totale, il rapporto con l’altro, come hanno sottolineato diversi autori, tra i quali Carl Gustav Jung (1907), per il quale i pazienti “invece di rispondere scompongono la domanda ed eventualmente aggiungono associazioni puramente fonetiche, perché non vogliono rispondere alla domanda”; e Henry Stack Sullivan (1940) che sostiene che tali comportamenti derivano dalla necessità di “conservare lo status quo per quanto forte sia la pressione esercitata dagli altri”.