Le funzioni dell’aggressività
La funzione difensiva dell’aggressività è stata sostenuta soprattutto dagli etologi, per i quali l’uomo tende a manifestare condotte di questo tipo quando sente minacciata la propria integrità fisica, il proprio spazio vitale e soprattutto la propria individualità. Tuttavia, nella società contemporanea si assiste spesso alla manifestazione di condotte aggressive innescate da scopi offensivi o addirittura distruttivi, in cui si può non eccezionalmente rinvenire un senso perverso di soddisfazione per la propria onnipotenza (l’“aggressività maligna” di Erich Fromm, 1973). Peculiari dell’uomo sembrano essere anche le condotte aggressive determinate da scopi competitivi, che si esprimono attraverso modalità più indirette e subdole, nonché quelle distruttive di gruppo.
La funzione adattiva dell’aggressività è avallata da diversi autori appartenenti anche a differenti tradizioni di ricerca. Il criminologo americano Lonnie Athens (1992, 1997) infatti afferma, a questo proposito, che la scelta della violenza non è solo in funzione del fatto di non avere nulla da perdere, ma anche di avere qualcosa da guadagnare e che, più una persona è coinvolta in un mondo sociale violento, più è probabile che sia essa stessa violenta.
L’aggressività sarebbe da considerarsi alla stregua di una strategia operativa suggerita dalla “esperienza filogenetica” e quindi inscritta nel patrimonio genetico in forma potenziale; tuttavia, nel tradursi in atto, essa subisce ampie modulazioni in funzione dell’ambiente circostante: “una capacità a disposizione, come quella che l’uomo ha di uccidere il suo simile con tutti i vantaggi che può trarne, non significa che egli abbia un istinto omicida, tale che non appena cadono i freni inibitori della civiltà, esso si manifesta nella sua cruda efficienza” (Fornaro, 2004).
Di conseguenza l’aggressività avrebbe una funzione eminentemente adattiva (che può esplicarsi attraverso due modalità, espansiva e difensiva), poiché rappresenterebbe soltanto una fra le opzioni disponibili all’animale all’interno dei vari programmi filogeneticamente inscritti nel suo corredo genetico: una potenzialità innata, più che un istinto.
Da un punto di vista socio-economico, Richard Wilkinson (2000) sottolinea la correlazione esistente fra disuguaglianza sociale e violenza, verificandone l’esistenza anche in realtà culturali molto differenti fra loro: il rischio di condotte aggressive aumenta proporzionalmente al dislivello sociale inteso come scarto fra le classi più ricche e quelle più povere. Le società che esprimono un minore tasso di violenza e una maggiore speranza di vita infatti, non sono quelle più ricche, ma quelle che hanno meno disuguaglianze al loro interno.
In tale contesto, in cui le relazioni sociali sono fondate principalmente su rapporti di dominio e l’organizzazione è maggiormente orientata a mantenere costanti i prestabiliti rapporti di potere piuttosto che alla risoluzione reale dei conflitti, gli individui hanno una percezione di disparità nella distribuzione dei beni e, di conseguenza, fanno un uso minore della negoziazione, sostituendola progressivamente con mezzi violenti di risoluzione dei conflitti.
Negli esseri umani, così come negli animali, l’aggressività può assumere anche una forma ritualizzata, attraverso l’adozione di schemi di comportamento intraspecifici che svolgono le stesse funzioni dei comportamenti aggressivi manifesti, senza arrivare necessariamente allo scontro; il vantaggio adattivo di queste modalità comportamentali sta nel consentire di regolare l’accesso alle risorse senza che i contendenti disperdano le energie necessarie per uno scontro vero e proprio. Nell’essere umano tale modalità tende a esprimersi più che sul piano motorio-comportamentale su quello verbale (motteggi, insulti, ironia e sarcasmo).