L’autismo
Il termine “autismo” (dal greco autòs = se stesso) è stato coniato da Eugen Bleuler, per indicare la perdita di ogni contatto con la realtà condivisa e il prevalere della vita interiore, con distruzione dei “ponti levatoi” tra le personali esperienze interiori e la realtà esterna e quindi frantumazione della intersoggettività. “Gli schizofrenici più gravi, che non sono più capaci di alcuna comunicazione, vivono in un mondo per sé. Hanno a che fare solo con i propri desideri, vivono le proprie persecuzioni e limitano il contatto con il mondo esterno (…). Il contenuto ideativo autistico assume per i malati valore di realtà, mentre il valore soggettivo di realtà viene ad essere in qualche modo cancellato” (Bleuler, 1911-1960).
Minkowski (1953) ha successivamente modificato la definizione di autismo, trasformando la perdita della realtà di Bleuler in una perdita del contatto vitale con la realtà (della capacità di “vibrare all’unisono con l’ambiente”), con la possibilità tuttavia di ristabilire questo contatto, sia del tutto sia in parte. Egli distingue un “autismo povero”, caratterizzato da una vita interiore molto semplificata, “geometrica”, che si avvicina per certi aspetti alle attuali forme di schizofrenia negativa; e un “autismo ricco”, accompagnato da attività immaginativa, con emergenze fantasmatiche, produttive.
Un’altra differenza, nell’ambito della letteratura psicopatologica classica, è quella tra “autismo primario”, caratterizzato da esperienze autistiche direttamente generate dall’esperienza psicotica, e “autismo secondario”, con atteggiamenti, più o meno intenzionali, che servono al paziente per allontanarsi da un mondo vissuto come insopportabile.
Come riportato da Umberto Galimberti (1999) il termine autismo ha un impiego generico e uno specifico. “Nella sua accezione generale l’autismo presenta i caratteri di una chiusura dei rapporti comunicativi con il mondo esterno con conseguente ritiro in se stesso (…). Il pensiero autistico si alimenta quasi esclusivamente di produzioni endogene con materiale derivato unicamente dal soggetto (…); se poi è la realtà a offrire il materiale, il soggetto non ne è consapevole, o lo connota immediatamente di contenuti soggettivi”.
Da questo punto di vista, soprattutto per quanto concerne l’autismo schizofrenico, le ipotesi possono orientarsi in direzioni opposte: per alcuni rappresenta un importante sintomo del disturbo schizofrenico, per altri non è semplicemente un sintomo e non si identifica con il concetto di ritiro in se stessi, ma “rappresenta un tratto della personalità pre-psicotica e – nella eventualità di un percorso che comporti una sua assoluta assolutizzazione – diventa il nucleo patoplastico della schizofrenia” (Ballerini, 2002). In ogni caso, l’autismo schizofrenico è un fenomeno complesso, che investe molteplici aspetti della persona e del suo rapporto con il mondo: “(…) gli aspetti antropologici fondamentali comprendono una perdita dell’orizzonte dei significati condivisi (dimensione cognitiva), il disturbo dell’empatia (dimensione emotiva) e la crisi della dialettica io-mondo nelle sue dimensioni etico-conative” (Stanghellini e Ballerini, 2005).
Dall’autismo caratterizzante i disturbi psicotici dell’adulto si differenzia l’autismo infantile precoce (classificato, nel DSM-IV-TR, nei “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo”), che colpisce durante l’infanzia e si manifesta con la compromissione qualitativa dell’interazione sociale e della comunicazione. Questo disturbo «malgrado il progresso nelle conoscenze, la diagnosi e gli interventi precoci, rimane tipicamente patologia lifetime. I bambini autistici, da grandi, non diventano persone con patologie diverse (…) né, finalmente “dischiusa” la conchiglia “difensiva” a lungo supposta delle ipotesi psicogenetiste, abbandonano in genere l’autisticità» (Barale e Ucelli di Nemi, 2003).