Il suicidio
Fu l’abate Desfontaine, nel XVIII secolo, a coniare il termine “suicidio”, derivandolo dal latino sui caedere, per indicare l’atto con cui l’uomo dispone definitivamente della propria vita.
Quello del suicidio è sicuramente un problema di amplissima portata e di gravi conseguenze: in base a una stima del 2003 di Althaus e Hegerl, circa un milione di persone all’anno porta a termine un comportamento suicidario e tra 10 e 20 milioni di soggetti tentano annualmente il suicidio; esso rappresenta l’ottava causa di morte nella popolazione generale, la terza nella fascia di età compresa tra 15 e 34 anni (Turchi e Placidi, 2004).
L’atteggiamento ideologico su questo problema ha visto, soprattutto in ambito filosofico, posizioni diverse e sovente antitetiche tra la riprovazione e l’esaltazione, in relazione al problema della libera scelta individuale e al senso stesso dell’esistenza. La Chiesa cattolica ha sempre difeso una posizione di assoluta condanna del suicidio (San Tommaso d’Aquino, nella Summa Teologica, affermava senza mezzi termini che esso è un peccato mortale contro Dio, che ha donato all’uomo la vita), fatta eccezione per la vocazione al suicidio-martirio, purché non improntata alle iperboli del fanatismo: furono infatti gli eccessi raggiunti in tal senso, nel IV secolo d.C. dai donatisti, i seguaci della chiesa scismatica africana fondata dal vescovo di Cartagine Donato, che indussero Sant’Agostino a dichiararli eretici e a condannare il suicidio quale segno di non accettazione della volontà divina.
Fra coloro che si sono occupati del suicidio spicca il sociologo francese Émile Durkheim (1897) che lo distinse in quattro tipologie: “egoistico” (caratteristico di coloro che non condividono un senso di appartenenza al gruppo), “altruistico” (indotto da iperidentificazione a valori socioculturali dominanti, come l’onore), “anomico” (in relazione all’incapacità di adattarsi a repentini cambiamenti sociali) e “fatalista” (in rapporto a un destino da cui non ci si può separare, senza perdere il senso della propria esistenza).
Freud evidenziò nell’ambito del suicidio il ruolo svolto dalle forze istintuali del soggetto, in particolare dalla funzione aggressiva: in Lutto e Melanconia (1915) egli afferma che nella melanconia può verificarsi il “superamento di quella pulsione che costringe ogni essere umano vivente a restare fortemente attaccato alla vita” e successivamente, in Al di là del principio del piacere (1920), riconosceva la possibilità di una sorta di inversione della pulsione di autoconservazione, in individui “che non sembrano mirare ad altro che all’autolesionismo e all’autodistruzione. Appartengono forse a questo gruppo anche quelli che alla fine si uccidono”. Tuttavia, come ha correttamente sottolineato Tatarelli (1992), “seguendo il pensiero freudiano questa ipotesi può sicuramente giustificare il suicidio di pazienti gravemente depressi, ma non rende conto di quei casi in cui sono evidenziabili fantasie di ricongiungimento con l’oggetto amato, o di rinascita, oppure di controllo onnipotente della propria esistenza mediante il controllo sulla propria morte. In questi casi le indagini psicoanalitiche metterebbero in evidenza la centralità della componente libidica del soggetto, al di là di quella aggressiva (…)”.
A partire dagli anni Sessanta (Stengel, 1964), la ricerca sul suicidio si è estesa anche all’ideazione anticonservativa e al fenomeno del tentato suicidio, portando quindi alla differenziazione dei seguenti comportamenti: l’ideazione suicidaria (da pensieri di morte a progetti di autosoppressione, senza giungere alla messa in atto di agiti anticonservativi), il comportamento autolesivo o suicidario (atto rivolto contro se stesso, con la consapevolezza che può essere fatale) e il parasuicidio (agito intenzionalmente autolesivo, ma senza un preciso intento di morte).
Secondo Altamura, Vismara e Salvatori (2004), i fattori di rischio per comportamenti suicidari, si possono distinguere in:
- primari (correlati alla patologia psichiatrica): è possibile rilevare un disturbo psichiatrico in oltre il 90% dei casi di suicidio; tra quelli più importanti sono segnalati la presenza di un episodio depressivo in atto, i disturbi di personalità caratterizzati da instabilità emotiva e la dipendenza da sostanze; non va tuttavia sottovalutato il rischio di suicidio nella schizofrenia: questa condizione presenta infatti una prevalenza di sintomatologia affettiva, in base ai diversi studi, tra il 25% e più del 50%, e la principale causa di morte prematura è rappresentata proprio dal suicidio (incidenza lifetime del 10-13%);
- secondari, connessi a fattori psicosociali: in particolare, sono da ricordare la positività per condotte suicidarie nei parenti di primo grado, che raddoppia il rischio, e recenti eventi di perdita; inoltre sia condizioni di isolamento, emarginazione, povertà, assenza di supporto sociale nonché aspetti psicologici, quali sentimenti di colpa e di vergogna, pessimismo, hopelessness sono importanti fattori predisponenti (Mann, 2003); particolare rilevanza sembra inoltre avere una storia di abuso fisico o sessuale nell’infanzia;
- terziari, connessi a fattori demografici: il parasuicidio è più frequente nei soggetti di sesso femminile, nella fascia di età compresa tra 15 e 35 anni, tra i disoccupati, tra i single, tra i caucasici di razza bianca.
Lo studio del suicidio e del tentato suicidio costituisce ancora oggi un problema complesso da molti punti di vista e incontra non poche difficoltà; non a caso, Albert Camus, ne Il mito di Sisifo, ha scritto che “vi è solamente un problema veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.