Aggressività, malattia mentale e stigma
L’immaginario collettivo ha sempre attribuito un’etichetta di aggressività, violenza, pericolosità sociale al paziente psichiatrico. Penrose, un sociologo inglese, nel 1939 affermava che “esiste una proporzione inversa tra i ricoveri in O.P. e il numero dei crimini”.
Invece, l’equazione “disturbo psichiatrico = comportamento violento” non è affatto scontata. Nessuna ricerca seria ha mai dimostrato differenze statisticamente significative nell’incidenza di episodi violenti tra pazienti psichiatrici rispetto alla popolazione generale.
Quindi, che il malato di mente sia pericoloso è uno stereotipo, una iper-semplificazione che andrebbe modificata alla luce dell’evidenza; ma, in questo caso, sovente lo scopo non sembra essere quello di comprendere, ma di discriminare. In tal modo, lo stereotipo tende a irrigidirsi in pregiudizio, vale a dire in un giudizio senza conoscenza specifica o esperienza diretta, bensì esclusivamente fondato su luoghi comuni; un pregiudizio, per altro, ampiamente avallato da teorie pseudo-scientifiche e dalla stessa legislazione psichiatrica, in Italia almeno fino alla Legge 180 (Tartaglione, 1999).
Dal pregiudizio, tuttavia, deriva lo stigma. E la stigmatizzazione dei malati di mente è una questione ancora molto attuale in psichiatria, tanto che recenti ricerche ritengono che lo psichiatra dovrebbe valutarne l’effetto come prassi standardizzata nel suo lavoro quotidiano, in questo modo sostenendo sia i familiari sia il paziente stesso e riducendone le conseguenze (Phillips et al., 2002). Un recente lavoro di Corrigan et al. (2005) è giunto alla conclusione che un ruolo chiave nel fenomeno della stigmatizzazione è ancora rappresentato dallo stereotipo che vuole il malato responsabile della sua condizione psichica nonché pericoloso per la collettività: questi due fattori influiscono profondamente sulla sua colpevolizzazione e conseguente discriminazione.
Lo stigma, quel marchio distintivo che anticamente veniva impresso a fuoco sulla fronte di malfattori o schiavi, oggi conserva ancora la sua funzione di confine ideale tra noi e ciò che sentiamo di non poter in alcun modo accostare a noi. Naturalmente, tanto più un fenomeno è mantenuto lontano e tanto meno è possibile pronunciarsi in merito con cognizione di causa, venendo così a essere rinforzato lo scopo più importante di uno stereotipo, di fornire comunque informazioni, pur in assenza di conoscenze dirette e scientificamente valide.
E’ possibile osservare come la percezione distorta del paziente psichiatrico a opera dell’opinione pubblica trasformi negativamente le convinzioni che egli stesso ha di sé e, più in generale, della follia, mediante un processo di internalizzazione del fenomeno dello stigma che lo porta ad autoemarginarsi e isolarsi socialmente.
Il pregiudizio insito nello stereotipo del “pazzo omicida” ha trovato un’ampia diffusione mediatica: con l’equazione “follia = criminalità” si è oscillato e si oscilla ancora oggi tra una criminalizzazione dei pazienti psichiatrici e una psichiatrizzazione dei criminali.
Per sottolineare il ruolo primario giocato dalle istituzioni preposte alla diffusione delle comunicazioni sociali, alcuni Autori parlano di stigma “strutturale”, quando cioè sono i mezzi di informazione di massa, e non i singoli individui, a promulgare messaggi stigmatizzanti circa la malattia mentale (Corrigan et al., 2005), attraverso il diffuso impiego di termini stigmatizzanti (mostro, folle, maniaco) e la frequente attribuzione di episodi violenti a patologie di ordine mentale, che rinforzano in tal modo lo stereotipo della pericolosità sociale del paziente psichiatrico.