Nosografia della patologia schizofrenica
La descrizione della schizofrenia nella sua struttura sindromica attuale è dovuta a Kraepelin, che distinse le psicosi endogene (quelle cioè non causate da una lesione anatomica del cervello, da un agente tossico o chimico o da disturbi metabolici) in due grandi categorie: la psicosi maniaco-depressiva (fasi di melanconia e di eccitamento variamente alternantisi con periodi liberi e senza deterioramento progressivo) e la demenza precoce, caratterizzata da manifestazioni comportamentali e affettive bizzarre, un esordio giovanile e un esito in costante deterioramento mentale.
Eugen Bleuler, nella sua monografia del 1911, osservò che l’esito della malattia non era sempre verso il deterioramento e che l’età di inizio non poteva essere considerata un elemento specifico e suggerì il termine di “schizofrenia” (dal greco schizein, rompere e fren, mente = psicosi dissociante) “sembrandogli i disturbi più elementari consistere in una mancanza d’unità, in un dirompersi e scindersi del pensiero, del sentire e del volere e del senso soggettivo della personalità. Bleuler non ritenne che dai pur comuni tratti della sintomatologia e del decorso si potesse inferire una vera e propria unità morbosa; per questo egli non parlò di una malattia, la schizofrenia, bensì di un gruppo di schizofrenie”. Egli distinse le manifestazioni delle schizofrenie in sintomi fondamentali, che permettono di porre diagnosi, in quanto sono specifici e caratteristici e sono presenti anche quando non si riescono ancora a rilevare (disturbi dell’associazione del pensiero, disturbi dell’affettività, ambivalenza e autismo) e sintomi accessori, che possono anche mancare o manifestarsi e sparire in tempi e combinazioni diversi (disturbi della sensopercezione, le idee deliranti, i sintomi catatonici e le particolarità nell’eloquio e nella scrittura).
Bleuler differenziò, sulla base dell’espressività, della sintomatologia e del decorso, quattro tipi di schizofrenia: a) schizofrenia paranoide (a possibile esordio più tardivo e con esito deficitario più lento), caratterizzata dalla presenza di deliri floridi e sistematizzati e allucinazioni, soprattutto uditive; b) schizofrenia simplex, con sgretolamento del pensiero e dell’affettività, ma assenza o scarsità della produzione delirante-allucinatoria; c) schizofrenia ebefrenica (a esordio estremamente precoce), con grave disgregazione del pensiero, dell’affettività e del comportamento e sintomatologia delirante e allucinatoria frammentaria, non sistematizzata; d) schizofrenia catatonica, con manierismi, stereotipie e manifestazioni acinetiche (fino allo stupor), che possono essere bruscamente esitare in crisi improvvise e insospettate di “furor catatonico”.
Un contributo importante alla psicopatologia delle psicosi, e della schizofrenia in particolare, venne da Kurt Schneider, che definì in ogni esperienza psicotica una area psicotica e una area extrapsicotica, dalla cui interazione emerge la sintomatologia del paziente: “Non si può trascurare il fatto che il soggetto psicotico talvolta può anche, come persona, prendere posizione di fronte alla sua psicosi. Allora possono verificarsi dei suicidi, che affondano le loro radici in un ambito extrapsicotico, in quella parte ancora restata sana, accanto alla psicosi e durante il suo svolgimento”. Schneider distinse inoltre le esperienze abnormi della schizofrenia, a seconda del peso che possono avere per la diagnosi, in sintomi di primo rango (percezione delirante, allucinazioni uditive, furto, influenzamento e diffusione del pensiero,) e di secondo rango (intuizione delirante, perplessità, alterazione dell’umore e appiattimento affettivo).
In anni più recenti si è riacceso, in particolare, l’interesse sulla sintomatologia negativa. Un contributo importante, in tal senso, è stato fornito da Timothy Crow (1980), che in una serie di lavori pubblicati nei primi anni ’80 delinea la distinzione tra due sindromi schizofreniche: di tipo I e di tipo II, quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza di sintomatologia negativa, scarsa risposta ai neurolettici tradizionali, presenza di deterioramento cognitivo, esito irreversibile. Per i due sottotipi distinti di schizofrenia, egli ipotizzò meccanismi patofisiologici diversi: in particolare, per la forma tipo I, disordini biochimico-funzionali; per quella tipo II, alterazioni strutturali.
La teoria di Crow, che derivava da un’impostazione di tipo “categoriale”, mentre qualche anno dopo Nancy C. Andreasen (1985; Arndt et al., 1995) ha orientano la ricerca verso un approccio “dimensionale”: partendo dalla considerazione che il modello iniziale di Crow non teneva conto della possibile commistione di sintomi positivi e negativi né dei cambiamenti della fenomenologia nel corso del tempo, ha raggruppato i sintomi presenti nella schizofrenia in tre differenti dimensioni: negativa, positiva e disorganizzativa. Non esistono quindi, in quest’ottica, sottotipi della schizofrenia, piuttosto esistono quadri clinici ai quali ciascuna dimensione contribuisce con un peso diverso rispetto alle altre.
Numerose analisi fattoriali hanno successivamente portato allo sviluppo di un modello a 5 dimensioni, che è quello oggi maggiormente accettato e che comprende: a) sintomi positivi (deliri e allucinazioni, linguaggio disorganizzato e comportamento agitato); b) sintomi negativi (restrizioni dell’espressione emotiva, pensiero, linguaggio, piacere, motivazione e attenzione); c) ostilità (insolenza verbale o fisica, autolesionismo, o altri comportamenti impulsivi); d) sintomi cognitivi (incoerenza e deficit nell’elaborazione e nell’apprendimento dell’informazione); e) sintomi affettivi (depressione e ansia, senso di colpa, tensione e irritabilità).