L’intelligenza
Secondo Jaspers (1959), l’intelligenza è “l’insieme di tutte le doti, di tutti gli strumenti che sono utili per una qualche prestazione nell’adattamento ai compiti della vita e che vengono impiegati in modo appropriato allo scopo”. Si tratta quindi di una complessa attività integrativa, il cui studio rappresenta per la psicologia e la psicopatologia uno dei capitoli più controversi. A questo proposito vale la pena ricordare che nel 1923 Edwin G. Boring (1923), quale esito del dibattito in corso in quegli anni a proposito di una definizione consensuale dell’intelligenza, affermava paradossalmente che essa “deve essere definita come la capacità di riuscire bene a un test di intelligenza”.
Fin dalla metà del XIX secolo, sono state avanzate su questa complessa attività diverse teorie, nell’ambito della contrapposizione tra il modello “unitario” di Spearman e quello “multifattoriale” di Thurstone.
Charles Edward Spearman, nei primi anni del Novecento, propose l’ipotesi di un’abilità generale (“fattore G”), sempre presente all’interno di ogni atto intellettivo; tale capacità di ragionare e di dedurre in termini di correlazione era distribuito in modo disomogeneo tra la popolazione, come l’altezza o il peso, ma rimaneva tuttavia sostanzialmente costante nello stesso individuo, anche in situazioni diverse.
Louis Leon Thurstone (1931) escludeva la presenza di un’abilità generale e riteneva invece che ogni prestazione contenesse sette “abilità primarie” (comprensione verbale; fluidità verbale; rapidità e abilità di calcolo; capacità visuo-spaziali; memoria di nomi, cifre e vocaboli; capacità di percepire dettagli, somiglianze e differenze; intuizione); J.P. Guilford nel 1967 estremizzava la concezione multifattoriale di Thurstone, giungendo all’identificazione di centoventi fattori sottostanti l’intelligenza.
I limiti intrinseci alla descrizione fattoriale delle capacità intellettive hanno portato successivamente a una ridefinizione del costrutto “intelligenza”, indagando gli stili cognitivi dell’individuo o introducendo il concetto di “intellectual competence”, in cui l’aspetto psicometrico passa in secondo piano e l’attenzione si sposta sull’adattamento tra individuo e ambiente.