Il delirio
Il termine delirio deriva dal latino de-lira e significa “uscire dal solco”: sottolinea quindi la devianza dal senso comune, dal pensiero condiviso; sullo stesso piano si colloca il termine di origine greca “paranoia”, che pure indica un tipo di pensiero collaterale e quindi “fuori traccia”.
Il delirio è sempre stato considerato un disturbo del pensiero: Séglas (1895) fu il primo a sostenere che non esistono differenze fondamentali fra gli errori del pensiero e i deliri, se non per le cause e le conseguenze. Più recentemente, Sims (1988) ha definito il delirio come “un’idea falsa, non criticabile, o una convinzione che non è riferibile al retroterra educativo, culturale o sociale del paziente; essa viene sostenuta con straordinaria convinzione e certezza soggettiva”.
È oggi condiviso, invece, soprattutto fra gli autori di impostazione psicodinamica, che l’idea delirante non sia un semplice “disturbo intellettivo”, in quanto sottende una potentissima carica affettiva e può determinare notevoli ripercussioni sul piano comportamentale.
Del resto, già Bleuler affermava che “le idee deliranti sono rappresentazioni erronee che non si costituiscono per una casuale insufficienza logica, bensì per un preciso bisogno interiore. Le idee deliranti hanno quindi sempre una determinata direzione, che rispecchia gli affetti del paziente, e nella loro grande maggioranza, finché persiste lo stato dal quale sono scaturite, sono inaccessibili alla correzione dell’esperienza e dell’apprendimento”. I deliri non rappresentano, insieme alle allucinazioni, soltanto i sintomi “accessori” più importanti della schizofrenia, quelli che danno l’impronta caratteristica al disturbo, ma, anche quando hanno scarsa o nessuna coerenza logica, si armonizzano potentemente con le diverse esigenze affettive.
Freud (1910) si è spinto oltre, sottolineando il significato ricostruttivo e protettivo del delirio, sostenendo che “il paranoico ricostruisce il mondo, non più splendido in verità, ma almeno tale da poter di nuovo vivere in esso. Lo ricostruisce con il lavoro del suo delirio. La formazione delirante che noi consideriamo il prodotto della malattia costituisce in verità il tentativo di guarigione, la ricostruzione”.
Si tratta di un concetto pienamente recuperato da Gaetano Benedetti (2005), laddove, trattando delle fasi iniziali della schizofrenia, afferma che “il mondo è percepito come fondamentalmente ostile e pericoloso, sia perché la sua percezione invade il Sé, sia anche per il fatto che la registrazione ordinata del mondo presuppone una “mappa interna”, senza la quale appare il caos. Il delirio è allora un tentativo di sistematizzazione ed anche, nella sua inflessibilità, una difesa contro lo smembramento (…)”.
Secondo Sharfetter (2002), “il delirio è una convinzione privata e privativa, che determina la vita di una persona nei rapporti con se stessa e con il suo mondo”; è una realtà “privata”, in quanto non condivisibile; è una convinzione “privativa”, in quanto isola, separa il delirante dalla comunità. Naturalmente “il delirante propone un proprio vissuto personale e privato come evento pubblico, perché, secondo lui, conoscibile e conosciuto dagli interlocutori. In altri termini, il paziente non ritiene il delirio come un vissuto personale (…) bensì un fatto universale ed accessibile a tutti” (Lalli, 2005).
In ogni caso, in un’ottica psicodinamica, il delirio “è più una necessità psicologica, disperata e vitale, che la tranquilla consapevolezza di un fatto immaginario. Il delirio è tensione, desiderio, carica affettiva. La sua impermeabilità alla discussione e alla evidenza non deriva tanto dal suo carattere radicato e definitivo, quanto dal fatto che esso è una questione di vita e di morte per il suo autore e protagonista. Il delirio non definisce soltanto un modo di interpretare la struttura generale del mondo esterno, ma definisce anche la figura e la dignità del soggetto delirante: questo ultimo si determina e conferma la propria identità attraverso la propria visione del mondo e difendendo le cose in cui crede” (Jervis, 1975).