di Vanna Berlincioni
Difficile riassumere in poche righe un pensiero ricco e fecondo come quello di Dario De Martis. Offrirò solo alcuni spunti che mi hanno colpito e che sono stati per me significativi nel suo modo di operare come psichiatra e psicoanalista nell’istituzione psichiatrica.
Come scrive in vari suoi articoli, Dario De Martis raccoglie un’eredità freudiana che auspica l’avvento di una psichiatria che abbia alla base una approfondita conoscenza dei processi inconsci. Freud si augurava che un giorno potessero esistere cliniche psichiatriche dirette da psicoanalisti in modo che i benefici della psicoanalisi potessero essere offerti a tutti i soggetti sofferenti, indipendentemente dal loro censo e dalla loro classe sociale.
Oltre mezzo secolo dopo le affermazioni freudiane, Dario De Martis, come parecchi altri psicoanalisti italiani, si confrontava con il lavoro istituzionale cimentandosi con la sfida di conciliare la propria identità psicoanalitica con quella psichiatrica, cosa che avvenne allora e tutt’ora non senza problemi e lacerazioni. Oggi il panorama è molto cambiato rispetto a quell’epoca potremmo dire pioneristica.
Il problema era quello impegnarsi in uno sforzo di comprensione che tenesse conto delle distorsioni comunicative del soggetto psicotico e del campo istituzionale, nonché delle situazioni concrete connesse con le condizioni di potere reale e non solo fantasmatiche, legate al quadro di riferimento organizzativo, culturale, politico e giuridico in cui l’analista si trova a operare.
Ciò significa prendere posizione nei confronti del terzo sociale, solitamente messo tra parentesi nella relazione psicoanalitica duale.
Il collegamento tra l’identità dello psichiatra e dello psicoanalista sta nella sua “funzione di testimonianza e di svelamento dei modi emozionali connessi ai sintomi e ai comportamenti morbosi riecheggiati nel gruppo di lavoro”. Il modo di operare di Dario De Martis mi sembra sia la testimonianza di questa inclusione dell’operatore psichiatrico nel campo osservativo e interpretativo, che ebbe straordinari sviluppi nella prassi psichiatrica successiva, ma che negli anni sessanta/settanta rappresentava una innovazione e una straordinaria anticipazione originale e molto coinvolgente per chi ebbe l’opportunità di condividere con lui quelle trasformazioni. Il radicale cambiamento delle prassi psichiatriche consuete guidate da un orientamento psicoterapeutico, passava attraverso la costituzione di una cultura comune del gruppo di lavoro che presentava così, almeno tendenzialmente, una sua coerenza, diventando capace di tollerare gli acting out, le posizioni ideologiche troppo rigide, i movimenti proiettivi e il possibile disinvestimento della relazione terapeutica da parte dello psichiatra e specularmente del paziente. Tutto ciò con lo scopo di raggiungere una sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo terapeutico. Obbiettivo di Dario De Martis era che in questo sforzo integrativo, psichiatria e psicoanalisi fossero complementari senza che una prevalesse sull’altra, analogamente a quanto pensava Georges Devereux a proposito del rapporto complementare tra psicoanalisi e antropologia. Il problema sul versante sociale, diventa dunque quello di non omologarsi alle leggi del collettivo che agiscono difensivamente, rispetto all’angoscia mobilitata dal contatto con la psicosi, ma per far questo occorre essere attenti osservatori del contesto e di se stessi in rapporto a quel contesto.
Prendersi a carico la totalità dell’istituzione nelle sue caratteristiche storiche, culturali nei suoi movimenti evolutivi e involutivi era descritto da Dario De Martis come un compito molto pesante, perché deve comprendere l’ambiente sociale, politico, economico, lavorativo e abitativo peculiari del territorio in cui si opera. Questo “reticolo denso, sovradeterminato e solo parzialmente esplorabile” – diceva Dario De Martis – mette in crisi il ruolo dello psichiatra/psicoanalista anche orientato da benevolenza e disponibilità, quale egli era, impegnandolo in una lotta che talvolta diventa una vera e propria “guerriglia” come egli la definisce, con le agenzie amministrative, con le implicazioni di potere le spinte verso il controllo sociale della follia, gli aspetti di emarginazione e marginalizzazione della follia che relegano sullo sfondo i desideri speculativi e interpretativi dello psichiatra. Di queste guerriglie chi opera nel pubblico ha sicuramente un’esperienza quotidiana, ma direi fa parte del lavoro non potersi sottrarre ad esse, pena il disinvestimento del lavoro o l’idealizzazione di una prassi psichiatrica libera da conflitti (Correale).
Essendomi iscritta alla facoltà di Medicina col desiderio di diventare psichiatra, avevo inizialmente frequentato un reparto ospedaliero nella città dove allora risiedevo. Sebbene fossimo già nell’epoca successiva alla promulgazione della legge 180, mi sembrava che lì si praticasse ancora una psichiatria vecchio stampo, residuo delle prassi manicomiali precedenti. La mia vocazione psichiatrica aveva dunque un po’ vacillato finchè, dopo essermi imbattuta negli scritti di De Martis e del suo allora allievo Fausto Petrella, mi ero convinta che si potesse praticare una psichiatria davvero innovativa o addirittura rivoluzionaria.
Dario De Martis e Fausto Petrella allora molto legati da un comune sentire e da un’intesa intellettuale non consueta, erano, almeno per come li percepivo io, veri militanti della psichiatria, lontani da movimenti di idealizzazione di una “buona” prassi psichiatrica orientata psicoanaliticamente. Seguire le loro lezioni e i loro insegnamenti aveva trovato in me la corrispondenza che cercavo.
Dario De Martis aveva una visione estremamente lucida della difficoltà e dei sentimenti di scoraggiamento e di impotenza generati nel lavoro istituzionale. Tuttavia vedeva nell’intraprendere questa strada, in questo tentativo di “verifica autoanalitica” e di attenta osservazione delle dinamiche istituzionali e sociali rispetto alla malattia mentale, “la migliore terapia per i fantasmi velleitari e megalomanici che si annidano in ciascuno di noi e nei confronti di un’attitudine “aristocratico-etnocentrica” del ruolo dell’analista in questi contesti. L’obbiettivo è quello di raggiungere un’identità professionale più elastica, flessibile, come il bambù di cui parlava Guido Saltamerenda, psicoanalista genovese, nella poesia che ha dedicato a Dario De Martis, sensibile al variare delle condizioni storico-politiche, alle richieste dell’ambiente, senza rinunciare all’osservazione partecipe della storia del paziente e all’esplorazione del suo mondo interno e delle nostre risposte controtransferali anche al di fuori di un setting psicoanalitico classico.
Altro aspetto assai importante nell’insegnamento di De Martis è l’osservazione delle condotte assistenziali improntate al bisogno di negazione della sofferenza psichica da cui si è massicciamente investiti, dal sentimento di colpa suscitato dalla funzione custodialistica, dalle istanze distruttive circolanti nell’istituzione che producono a volte abusi di potere, cinismo e condotte paradelinquenziali simmetriche a quelle di certi pazienti caratteropatici. Senza una buona comunicazione istituzionale queste condotte tendono a reiterarsi con le caratteristiche della coazione a ripetere, a fissarsi e ad amplificarsi con conseguenze a volte devastanti, sulla terapeuticità del luogo di cura. Il lavoro sulle difese collettive e sui processi scissionali operanti nell’istituzione, non permette deroghe se si vuole dare avvio a movimenti di riparazione. Casi di questo tipo sono stati abilmente descritti da Dario De Martis e Fausto Petrella che ha molto sviluppato la metodologia della discussione in gruppo dei casi istituzionali. Ciò che è in ogni modo da evitare è la routine degli atti professionali.
Un altro tema che Dario De Martis aveva a cuore era il confronto serrato con altri indirizzi psicoterapeutici, nel tentativo di realizzare un dialogo teorico, metodologico e clinico nella pluralità dei modelli e delle pratiche psicoterapeutiche in atto nell’Italia di allora. Egli detestava i riduzionismi di ogni tipo anche quello psicoanalitico. Con questo spirito partecipò
alla fondazione della Società Italiana di Psicoterapia Medica, impegnandosi nell’elaborazione del progetto di costituire una Società in cui la dimensione psicoterapica dell’atto medico venisse valorizzata. Eravamo negli anni 1963–1965, ma la tematica è dibattuta ancora oggi all’interno della SIPM. L’ufficializzazione della società come Sezione della SIP con norme statutarie più definite, avvenne nel 1966 e Dario De Martis ne diventò presidente. Nel primo convegno del 1967 ci si occupò di Psicoterapie brevi ambulatoriali e di lì in avanti fu un susseguirsi di discussioni molto interessanti su temi clinico-teorici vari con contributi che ancora oggi sono di notevole attualità. Ne ricordo alcuni:
- Fondamenti dell’azione psicoterapeutica in rapporto alla struttura biologica e psicologica dell’individuo ed alla sua interazione ambientale (1968)
- L’Inserimento della Psicoterapia nella situazione Sanitaria Italiana (1970)
- La Psicoterapia nelle Istituzioni non psichiatriche, tenutosi a Pavia nel 1971
E via discorrendo, tutte testimonianze di come fosse essenziale per Dario De Martis e il gruppo pavese di psichiatri universitari esplorare la dimensione sociale della follia, confrontarsi ed inserirsi nel sociale come terapeuti, senza perdere di vista l’individuo sempre tuttavia plasmato e connesso al suo ambiente socio-culturale. La sua proposta psicoterapeutica non era dunque “fondata sul progetto di ridurre l’altro alla ragione (espressione semanticamente ambigua e per molti versi minacciosa) quanto quella di creare le premesse per la riapertura di un discorso interrotto”, che evidentemente non si è ancora interrotto a tutt’oggi.
In conclusione, originalità e creatività facevano parte del modo di praticare la psichiatria di Dario de Martis. Era un disegnatore abilissimo, aveva una passione naturalistica derivata dagli insegnamenti della madre, aveva una cultura vasta che spaziava in vari campi del sapere. Ti poteva inchiodare in corridoio con benevola ironia ponendoti domande a bruciapelo del tipo: “Lei sa cos’è la benderella ileopettinea?” lasciandoti nell’imbarazzo della tua ignoranza, ma sempre coll’intento di stimolarti a diventare consapevole delle tue reazioni emotive e a migliorare le tue conoscenze. Era accogliente e disponibile, ma poteva essere burbero ed esigente, come si addice a un maestro.
Ho avuto la fortuna di frequentare la scuola di specialità mentre Dario De Martis la dirigeva e di svolgere il Dottorato di ricerca avendolo come tutor. Anche negli ultimi anni in cui era provato dalla malattia e dalla sofferenza, è stato capace di trasmettere un grande insegnamento: il suo coraggio, la sua tenacia e la possibilità di non scoraggiarsi di fronte alle avversità dell’esistenza. Devo a lui, e in seguito a Fausto Petrella, l’aver intrapreso la mia carriera universitaria, imparando a districarmi e anche a prendere le distanze dagli aspetti più deteriori del potere accademico.
Credo sia fondamentale testimoniare alle generazioni future di psichiatri e psicoterapeuti l’importanza di una visione storica degli sviluppi della psichiatria, senza temere di riconoscersi nei padri per poter procedere verso direzioni innovative della nostra disciplina.
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